Giustizia
Non sono gli arresti di oggi la fine degli anni di piombo
Come chiamarli gli italiani arrestati in Francia?
Terroristi? Non va bene, non tutti sono stati condannati per questo reato.
E se la parola più giusta fosse proprio quel piccolo ex che tutti aggiungono?
La lotta armata è finita, la violenza politica è stata sconfitta dallo stato italiano.
Nessuno di loro in Francia ha compiuto altri reati. Dunque ex senz’altro va bene.
Certo fa specie ancora leggere giudizi lapidari del tipo: una pagina di storia mai chiusa, una ferita ancora aperta, una fine mai arrivata.
Fa specie perché accanto a ex può essere ben messo anche il numero: nove ex.
Un piccolissimo gruppo.
Vale assolutamente la pena chiedersi che fine hanno fatto tutti gli altri protagonisti della lotta armata e ricordare che ce ne sono stati tantissimi che hanno pagato il loro conto con il carcere.
Ora vivono liberi e molti di loro provano in qualche modo a risarcire il male compiuto con lavori sociali, volontariato, percorsi di riconciliazione e giustizia riparativa testimoniati in chiese, scuole e teatri.
Valesse cercare una possibile spiegazione potremmo trovarla nel fatto che studi ed esperienza dicono che i protagonisti della violenza politica non hanno mai ucciso volentieri, senza un trauma interiore.
Nella criminalità comune accade che molti protagonisti di reati facciano della violenza una carriera e un mestiere.
C’è una storia da raccontare nei sequestri di persona (Sossi, Moro, Taliercio) che hanno messo in crisi i progetti dell’eversione. L’incontro con persone in carne, ossa e sentimenti hanno scosso la convinzione di essere in guerra contro nemici, privati di un volto e di una verità, da eliminare.
Fu l’intuizione del cardinale Martini negli anni ’80: frequentava le carceri e si accorse che i detenuti politici erano un’altra storia rispetto ai cosiddetti comuni. Fu un’intuizione che diede vita a percorsi straordinari di recupero per tutto il lavoro che Martini seppe avviare.
In questo momento sono tutti coloro che hanno scontato la loro pena e fanno un’altra vita a dire all’Italia di oggi che gli anni di piombo sono finiti. La pagina è girata.
Sergio Segio, anche lui ex, nome di battaglia miccia corta, ha di nuovo scritto in questi giorni: in Italia, i terroristi «sono stati condannati con le sbrigative regole, e le inaudite pene, della legislazione di emergenza che ha avuto corso in Italia negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso per reprimere quel violento sommovimento che ha in vario modo coinvolto decine di migliaia di persone».
Io credo che Segio abbia torto. Tutti quelli che hanno scontato la pena e oggi vivono una vita diversa sono la smentita più netta della sua considerazione. Hanno avuto la possibilità di una seconda vita. Per usare una pessima espressione per nessuno si è buttata via la chiave. Non ci sono state pene inaudite.
Ricordo una storia tra le tante. Quella del terrorista nero Giusva Fioravanti: ha maturato condanne per 8 ergastoli, 134 anni e 8 mesi di reclusione. Nell’aprile dal 2009, dopo 26 anni di carcere, 5 di libertà vigilata e a 31 dall’arresto, è completamente libero dalla pena cumulativa come previsto dalla legge Gozzini.
Dagli anni novanta collabora, come beneficiario di un programma di reinserimento di detenuti, con Nessuno tocchi Caino, l’associazione contro la pena di morte legata al Radicali italiani, associazione della quale è dipendente come impiegato.
Tante storie di questi uomini e donne sono raccontate nel bel libro di Angelo Picariello, Un’azalea in via Fani, San Paolo.
Uno dei tanti libri sugli anni di piombo che sceglie proprio il racconto delle storie personali. «Perché, al di là di molte spiegazioni oggettive, il terrorismo è stata una scelta personale di tanti uomini e donne che hanno creduto di trovarvi una risposta autentica alle domande della loro vita».
Proprio in questo libro ho trovato questa riflessione: «un cammino tra gli ex della lotta armata aiuta a vincere la diffusa obiezione che il loro recupero, la loro uscita dal carcere una volta scontata la pena sarebbe un oltraggio alla memoria delle vittime. In realtà il loro recupero (se vero) è la vittoria, oltre che dello Stato, delle vittime stesse. Che hanno pagato con la vita, ma i loro valori nel tempo hanno vinto».
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