Giustizia
Non si deve morire di anoressia: innovare la legge sul TSO
Il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) è un istituto della Legge Basaglia e attualmente disciplinato dalla legge n. 833 del 23 dicembre 1978. La norma individua quando ricorre la necessità che venga applicata la limitazione della libertà personale, in seguito ad un azione di ricovero coatto e forzato di pazienti con problemi psichiatrici tali da renderli potenzialmente pericolosi per se stessi e per la comunità.
Il provvedimento è emanato dal Sindaco del Comune del luogo in cui il soggetto è residente o si trova, anche se normalmente questo trattamento viene richiesto dai familiari del paziente, dai suoi medici curanti o dalle forze dell’ordine.
La citata legge n. 833/1978 prevede che a questa procedura si faccia ricorso solo in casi eccezionali e dopo l’espletamento di una serie di tentativi che devono mettere principalmente in contatto il paziente con le misure extra-ospedaliere.
Negli anni, la critica maggiore che è stata mossa, è stata quella di prevedere la possibilità di fare ricorso contro il TSO solo dopo che il trattamento sia stato già effettuato.
Deve essere a proposito ricordato che l’impropria limitazione della libertà personale è oggetto di risarcimento del danno patrimoniale.
La Corte di Cassazione è intervenuta più volte in materia, in particolare può essere ricordata la sentenza n. 307/1990, nella quale si sottolinea lo scopo del trattamento, che deve essere tollerabile e imposto purché non incida negativamente sulla salute del paziente.
Ma nel caso di un malato di anoressia, come si potrebbe configurare l’utilizzo del TSO?
Mi ha colpito molto la storia di Lorenzo Seminatore, morto il 3 febbraio a Torino, lasciando i suoi genitori distrutti dal dolore, ma che hanno avuto la forza di denunciare. Queste le loro parole:
– “Ci sono altre famiglie che stanno vivendo il nostro calvario e sappiamo quanto ci si senta soli. Vogliamo scuotere la coscienza delle istituzioni, perché è inaccettabile che in un Paese come l’Italia non ci siano strutture pubbliche in grado di accogliere e curare ragazzi come nostro figlio. Negli ospedali si limitano a parcheggiarti in un reparto e a somministrare flebo per integrare il potassio. Poi ti rimandano a casa, fino al prossimo ricovero”
Lorenzo aveva dichiarato più volte le sue motivazioni, che lo spingevano a non mangiare, perché così il suo corpo sarebbe arrivato alla morte, era questa l’unica ragione che lo spingeva a privarsi del cibo.
La depressione, dopo un apparente periodo positivo, aveva ripreso il sopravvento, e nessun ricovero riusciva e farlo riprendere, ma non solo, aveva 18 anni e quindi poteva firmare le dimissioni e rifiutare le cure. Un calvario, culminato con la tragedia.
L’anoressia nervosa e gli altri disturbi alimentari ad essa legati, sono malattie mentali alle quali possono essere associate grave disabilità, scarsa qualità della vita ed elevato mortalità.
Anche se sono evidenti i danni fisici determinati dall’anoressia, le persone colpite non riescono a valutare il basso peso un problema e questo fa in modo che si convincano a rifiutare le cure, mettendo in serio pericolo la loro vita.
Da qui la necessità di valutare per loro la possibilità di rincorrere ad un trattamento sanitario obbligatorio (TSO)
Anche se il TSO viene valutato in maniera negativa per la relazione terapeutica, deve essere attuato se considerato come un trattamento compassionevole o addirittura come trattamento salvavita.
Dal punto di vista normativo la condizione essenziale per l’applicazione del TSO è il rispetto del dettato costituzionale (art. 32 della Costituzione della Repubblica Italiana) per il quale è lecito curare la salute di un cittadino contro la sua volontà solo nei casi previsti dalla legge.
Quindi il TSO deve essere attivato quando c’è la necessità di intervenire a beneficio del paziente, anche se in conflitto con il dovere di rispettare il diritto alla libertà del cittadino.
Il provvedimento del TSO prova a rendere compatibili due diritti inalienabili del cittadino:
– la difesa della salute;
– la libertà individuale.
Tre condizioni devono essere presenti contemporaneamente e devono essere certificate e motivate da un primo medico e convalidate da un secondo medico, che deve appartenere a una struttura pubblica:
1. una condizione di alterazioni psichiche della persona tali da necessitare urgenti interventi terapeutici;
2. rifiuto da parte della persona degli interventi terapeutici proposti;
3. l’impossibilità di adottare tempestive misure extraospedaliere.
Il Sindaco ha 48 ore per disporre tramite ordinanza il TSO.
Il giudice tutelare, entro le successive 48 ore, assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare il provvedimento.
La durata massima di un TSO è formalizzata in sette giorni, eventualmente rinnovabili se le condizioni del paziente lo rendano necessario.
Sovviene quindi il dubbio, se esiste un obbligo giuridico di sottoporsi a cure, quando i problemi sono di natura nutrizionale, ma legati, come l’anoressia, alle stesse problematiche di una malattia mentale.
Il principio di libertà inviolabile della persona, sancito dall’art. 13 della Costituzione («La libertà personale è inviolabile») configurerebbe un diritto fondamentale dell’individuo all’autodeterminazione, in ordine alla propria salute e alla propria sfera fisica.
Ma esiste per il medico l’obbligo di rispettare la volontà del paziente di “lasciarsi morire di fame”?
Nel caso specifico dell’anoressia nervosa, l’intervento si giustifica in caso di necessità e urgenza, di estrema gravità clinica, data la sopravvenuta incapacità di intendere e volere per le alterazioni psicopatologiche nell’individuo.
I clinici debbono tener presente anche il principio di “stato di necessità”, normato dal Codice Penale (CP), dal Codice Civile (CC) e ripreso dalle disposizioni del Codice di Deontologia Medica.
– «Quando il medico ravvisi condizioni eccezionali di necessità e urgenza e ove ricorrano oggettive esigenze di salvaguardare la persona dal pericolo attuale di un danno grave non altrimenti evitabile, in particolare quando ha la convinzione che nella situazione con la quale è venuto a contatto ci sia un rischio di danno per la vita e l’integrità delle persone coinvolte – rischio legato non solo al comportamento del paziente ma anche alle caratteristiche dell’ambiente di vita – è tenuto ad adempire il proprio dovere professionale attuando i provvedimenti opportuni e non differibili, nel rispetto della legge (anche di ricovero coatto) attivando anche le altre agenzie dell’emergenza, sia sanitaria che delle forze dell’ordine».
Se il paziente si trova nella condizione di non poter prestare alcun valido consenso, il medico dovrà assumersi in prima persona ogni responsabilità.
Nel caso che il medico decidesse di intervenire, non sarà punibile purché sussistano i requisiti di cui all’art. 54 del CP, e cioè lo stato di necessità, che risulta integrato quando egli debba agire al fine di salvare il paziente dal pericolo attuale di un grave danno alla persona (cosiddetto “soccorso di necessità”).
Per quanto riguarda i casi in cui non si può chiedere il consenso per estrema urgenza, di cui all’art. 2045 CC, per salvare sé o altri dal pericolo attuale di danno grave, la presenza di uno stato di necessità è obbligatoria.
Per tutte queste variabili il clinico che agisce in questo campo si scontra continuamente con il dilemma tra il diritto all’autonomia del paziente e il dovere medico di curare, potendo rischiare di incorrere in accuse come il sequestro di persona (art. 605 CP) e la violenza privata (art. 46 e 610 CP) o viceversa l’omissione di soccorso (art. 592 CP), l’abbandono d’incapace (art. 491 CP), l’omissione di atti d’ufficio (art. 328 CP), le lesioni personali colpose (art. 590 CP) fino all’omicidio colposo (art. 589 CP).
La corretta e completa informazione del paziente costituisce un presupposto fondamentale della validità del consenso/rifiuto alle cure, che solo in questo caso può effettivamente dirsi “informato”.
L’operatore sanitario ha l’obbligo d’informare in maniera esauriente il paziente sulla sua situazione e i mezzi tramite i quali si tenterà di migliorarla; quest’obbligo va adeguato all’età e all’istruzione del paziente al fine di renderlo consapevole di ciò che sta per affrontare e delle sue conseguenze. Il consenso, pertanto, oltre a essere attuale, deve essere maturo.
Se il paziente dopo aver appreso dettagliatamente la propria situazione deciderà di revocare il consenso, il medico sarà costretto a rispettare la sua volontà potendo solo invitarlo a riesaminare la situazione. Neppure un giudice potrà intervenire imponendo al medico di agire in modo diverso dalle decisioni prese dall’ammalato.
Dal Comitato Nazionale per la Bioetica sono emerse diverse opinioni, per quel che riguarda l’ipotesi del rifiuto/rinuncia alle cure.
Da un lato vi è la posizione secondo cui la vita umana costituisce un bene indisponibile, da tutelare e preservare sempre, garantendo adeguate cure mediche.
Dall’altro, la posizione che considera il bene vita come un bene senza dubbio primario e meritevole della massima tutela, ma non per questo assoggettato a un regime di assoluta indisponibilità, dovendosi tenere in considerazione il valore che il singolo vi attribuisce, alla luce dei principi e delle scelte morali che riflettono il senso che ognuno conferisce alla propria esistenza.
È necessario orientare le coscienze dei medici ad acquisire un profondo rispetto verso l’esercizio, da parte dei malati, di un diritto seppur tragico nel suo fine.
Dal punto di vista etico invece, la rinuncia e il rifiuto delle cure salvavita da parte di un paziente vanno interpretati non come l’esercizio di un diritto, ma come il segno di una situazione psicologica ed esistenziale tragica.
Le cure quotidiane e indispensabili come l’idratazione e l’alimentazione sino a quando risultino realmente efficaci, rappresentano sempre un mezzo ordinario e proporzionato in ordine alla sopravvivenza del paziente.
In casi estremi di necessità e urgenza, il ricorso a tali forme di sostentamento vitale potrebbe avvenire anche senza la volontà del paziente, rifiutabili in momenti successivi a quelli dell’urgenza terapeutica.
Un problema da affrontare è la questione riguardante la “capacità mentale” dei soggetti affetti da anoressia nervosa, nell’esprimere il consenso sulle possibilità di trattamento.
Per rifiutare o fornire il proprio consenso a un trattamento, una persona deve essere in grado di farlo volontariamente: in questo caso una volontà libera comporta la possibilità di effettuare scelte razionali, sia in termini cognitivi sia in termini affettivi. Il soggetto deve quindi essere capace mentalmente di compiere un processo decisionale razionale.
Il motivo urgente dell’ospedalizzazione, nei casi di anoressia nervosa è per lo più costituito dalla grave compromissione fisica che richiede un trattamento di carattere medico eventualmente comprensivo della rialimentazione, anche senza la presenza di alterazioni psichiche tali da richiedere di per sé un trattamento urgente, come previsto dalla legge.
Tuttavia, il punto centrale della norma che regola il TSO attualmente non è il rifiuto dell’intervento medico ma il bisogno di intervento a causa della presenza di un disturbo psichico.
Nei soggetti con anoressia nervosa possono essere presenti alterazioni mentali che possono consentire il TSO per problemi psichici, pensiamo alla depressione, al rischio di suicidio, all’ideazione delirante.
I soggetti con gravi sintomi legati alla psicopatologia dell’alimentazione non hanno una corretta valutazione e consapevolezza di malattia e pertanto, non è sempre possibile definire con certezza se e quando una persona affetta da anoressia nervosa ha la capacità di dare o rifiutare il consenso al trattamento medico.
Da questo punto di vista quindi l’obbligatorietà del trattamento nutrizionale è pari allo stesso trattamento psicofarmacologico avente l’obiettivo di permettere la successiva adesione alla terapia attraverso il superamento della fase di psicopatologica che ne determina il rifiuto.
Nella realtà dei fatti l’anoressia nervosa si trova in una situazione di assoluta particolarità: non è un disturbo a carattere francamente delirante e l’unica vera terapia sostanzialmente rifiutata è il cibo per cui non può essere immediata la dimostrazione delle condizioni enunciate nell’art. 34 della legge 833/78.
Il trattamento obbligatorio deve essere sempre verificato con la massima attenzione perché viene considerato dalla legge la forma massima della limitazione della libertà, seppure drammatico e necessario in alcuni particolari casi, del percorso di cura di pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione.
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