Giustizia
Non più giudici ma censori: e addio Montesquieu
Dice Roberto Scarpinato che la fedeltà della magistratura «alla legge costituzionale è prioritaria rispetto a legge ordinaria». Al di là dell’ovvio, basterebbe aprirla, questa benedetta Costituzione, per trovare la smentita più netta. Si trova contenuta nell’articolo 101: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Si tratta della trasposizione in norma del principio della separazione dei poteri. Questo dice la Carta. Punto. La promozione sul campo a «magistratura costituzionale» che il procuratore generale di Palermo si autoassegna – non più magistrati che applicano la legge ma magistrati che processano la legge – insieme al ruolo di vigilanza che questa nuova magistratura avrebbe «sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo», travalica la divisione dei poteri e sembra qualcosa di cui potersi preoccupare.
Scarpinato in una sua recente intervista a Repubblica parla addirittura di un «ruolo strategico» di questa «magistratura costituzionale» il quale però non ha nessun fondamento nella Carta e, anzi, sembra decisamente in contraddizione con ciò che la stessa Carta stabilisce. A Scarpinato, peraltro, si potrebbe anche obiettare – come ha fatto un altro magistrato di lungo corso, come Nello Rossi – che una magistratura costituzionale esiste già, ed è la Consulta. E, come è noto, la Consulta non ha nulla a che fare con la magistratura ordinaria che ad essa può soltanto sottoporre quesiti relativi alla aderenza di una legge alla norma costituzionale. E questa operazione, come è ovvio, non comporta certamente una condivisione di funzioni o un trasferimento di poteri, tanto è vero che l’organo di chiusura dell’ordinamento giudiziario è il Csm, non la Corte Costituzionale, coerentemente con il principio secondo cui «i giudici sono soggetti soltanto alla legge».
Ma forse è addirittura inutile inseguire certi ragionamenti quando è già il fondamento ad essere minato. Peraltro il principio affermato dall’articolo 101 della Costituzione non una cosa da poco, ché anzi è la massima garanzia della libertà dei magistrati i quali, proprio in virtù di quella norma, non devono rispondere di ciò che fanno al potere politico. In quelle parole insomma, sta la realizzazione di ciò che Montesquieu scriveva nello Spirito delle leggi: «Perché non si possa abusare del potere bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere». E, però, ora d’improvviso sembra che, in conseguenza di una aspirazione a farsi tutori dell’operato delle forze politiche, qualcuno voglia mandare in archivio il bilanciamento tra poteri che la Costituzione stabilisce, tanto da proclamare i giudici come censori «delle contingenti maggioranze politiche di governo». Ma attenzione: insieme al bilanciamento tra poteri, andrebbe in archivio anche quella garanzia di libertà che la Costituzione assicura agli stessi giudici. E, se spaventa una magistratura che ambisce a un ruolo di vigilanza sulla politica, spaventa altrettanto – e, anzi, di più – che la magistratura rischi di tornare ad essere assoggettata al potere politico.
Certe forzature, poi, appaiono ancor più preoccupanti se si ricorda che di recente un altro autorevole magistrato, Piercamillo Davigo, si era lasciato andare a ripetuti interventi che hanno fatto discutere. Purtroppo, il dibattito pubblico si è limitato alla solita, sterile polemica tra magistrati e politici sulla corruzione. Eppure, Davigo aveva fatto affermazioni in grado di incidere profondamente sugli assetti delle garanzie stabilite in Costituzione. Un esempio è nella convinzione del capo dell’Anm che la presunzione d’innocenza sia soltanto un fatto interno al processo, sebbene sia proprio la presunzione d’innocenza ciò che distingue la giustizia degli stati moderni dalla giustizia di stampo inquisitorio e da quella dell’ancien régime. Intervistato da Giovanni Floris a Dimartedì, Davigo aveva poi aggiunto: «Si dice: aspettiamo le sentenze. Ma il più delle volte le sentenze verranno pronunciate sulla base di elementi che sono già noti all’inizio». E questa affermazione era apparsa come un invito al giudizio sommario – tecnicamente sommario ossia basato sulla semplice accusa formulata dal pm e senza attendere l’accertamento del giudice sul fatto – da trasferire nella politica e nel corpo sociale poiché, a quanto pare, qui non opererebbe il principio d’innocenza o, per meglio dire, di non colpevolezza.
L’enormità delle possibili conseguenze di tutto ciò – un’enormità che va certamente oltre le intenzioni di Davigo e Scarpinato – dovrebbe essere evidente a tutti. Se così non fosse, si può provare a immaginare cosa accadrebbe se tutto ciò fosse portato alle sue estreme conseguenze: senza più le garanzie costruite sulla divisione dei poteri, senza più la garanzia del principio d’innocenza, senza più la garanzia di un processo che si chiude con una sentenza e non si limita ad essere un giudizio sommario, ebbene: senza tutto questo, quel ruolo di «magistratura costituzionale» incaricata di vigilare «sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo» inizierebbe a somigliare in modo inquietante a una funzione censoria sul potere politico: concretamente censoria e, dunque, inevitabilmente repressiva. Insomma, una polizia politica. Questo è il rischio. Ed è una cosa della quale tutti – e certamente anche Scarpinato e Davigo – farebbero a meno, e senza nessun rimpianto per un Novecento che dovrebbe, questo sì, essere finalmente spedito in archivio.
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