Giustizia

Caso Peveri: non è stata legittima difesa ma esecuzione sommaria

24 Febbraio 2019

Nella notte del 5 ottobre del 2011 suona l’allarme nel cantiere della ditta di Angelo Peveri lungo il fiume Tidone, vicino Piacenza. Tre ladri sono entrati e cercano di rubare del gasolio da un escavatore. Accorrono sul posto il proprietario, Angelo Peveri, insieme al suo dipendente George Botezatu. Peveri spara tre colpi con il suo fucile a pompa, ferisce uno dei ladri e li mette in fuga. Pare finire lì, ma poco dopo uno dei ladri ritorna nei pressi del cantiere per recuperare la sua auto. Botezatu lo riconosce e, insieme al suo datore di lavoro lo blocca. Stando alla ricostruzione della procura di Piacenza, l’operaio e il suo datore di lavoro avrebbero immobilizzato il ladro, lo avrebbero costretto ad inginocchiarsi, e quindi, dopo averlo messo giù ed avergli fatto sbattere la testa sui sassi, Peveri gli avrebbe sparato al petto. Solo per un caso il ladro, Dorel Juncan, riesce a sopravvivere, seppure con un polmone perforato.

Peveri cerca di difendersi sostenendo che il colpo di fucile sarebbe partito per sbaglio, dopo essere inciampato sui sassi lungo il fiume, ma la perizia balistica lo inchioda alle sue responsabilità: il colpo di fucile che ha colpito Dorel Juncan è stato sparato a distanza ravvicinata, dall’alto verso il basso, su di una persona a terra in posizione supina.

Dorel Juncan subisce un processo per tentato furto, viene condannato a 10 mesi e 20 giorni di reclusione e, nel contempo, la procura porta Peveri e Botezatu in tribunale con l’accusa di tentato omicidio. Il processo, all’esito del giudizio abbreviato chiesto dalla difesa, si conclude con la condanna dei due alla pena di quattro anni e sei mesi di reclusione per Peveri e di quattro anni e due mesi per Botezatu. Una pena tutto sommato mite se paragonata alla gravità dei fatti ma che, superando i limiti per poter accedere in stato di libertà ad una delle misure alternative alla detenzione previste dalla legge, conduce Peveri e Botezatu in carcere.

Fin qui sarebbe una vicenda che, per quanto estremamente cruda, rimarrebbe confinata nella cronaca, richiamando al più, nell’immaginazione di un modesto numero di lettori, qualche scena di violenza vista al cinema.

Accade, tuttavia, un corto circuito che fa uscire il caso dalla cronaca locale e lo porta all’attenzione nazionale: il ministro dell’Interno Matteo Salvini, l’uomo a cui sono demandati attraverso la polizia sottoposta alla sua autorità la sicurezza e il rispetto delle leggi, si reca immediatamente a far visita in carcere ad Angelo Peveri per portargli la sua solidarietà, facendone una sorta di “testimonial” per la legge sulla legittima difesa che intende far approvare in parlamento (legittima difesa che – come sottolineano da più parti – non ha nulla a che vedere con la condotta di Peveri, tant’è che neppure i suoi avvocati hanno provato a sostenere tale tesi in tribunale).

Ora, io non uso facilmente questi toni, ma credo che questa vicenda rappresenti davvero una sorta di caso limite, uno spartiacque che per ovvie ragioni di dignità istituzionale, se non di semplice decenza civile, non avrebbe dovuto essere valicato: un ministro dell’interno che, contando di raggranellare qualche voto in più e di avvalorare una narrazione tossica sulla legittima difesa, porta la sua solidarietà ad una persona che, in definitiva, ha sparato a sangue freddo ad un uomo a terra per vendicarsi di un tentato furto di poche decine di euro di gasolio.
Ecco, dopo un fatto del genere, io mi chiedo se sia necessario essere “buonisti” per provare indignazione o sia sia sufficiente, come credo, essere semplicemente persone normali, desiderose di vivere in un paese giusto nel rispetto delle leggi e della civiltà.

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