Giustizia

Ministro Orlando, Milano non ha insegnato nulla

12 Novembre 2015

Nel tribunale di Cosenza puoi entrare con un trolley e nessuno ti controlla. Guai, però, se ti parte inavvertitamente il flash dello smartphone mentre stai smanettando col cellulare: “Signore, qui non si possono scattare foto, l’abbiamo vista io e il mio collega”, mi dice ieri una delle due guardie giurate che stazionano all’ingresso. Capita così di dover presentare un documento di riconoscimento, aspettare che il vigilante avvisi il carabiniere di turno all’ingresso, il quale, anche lui, ti chiede il motivo dello “scatto”, quindi attendere che verifichino i tuoi dati. Nel frattempo, pur avendo un marsupio a tracolla, a nessuno viene in mente di controllare che cosa io abbia dentro. Ieri ero in tribunale solo per salutare alcuni miei ex colleghi che si occupano di cronaca giudiziaria. L’altro ieri, invece, ci sono arrivato per essere sentito nel processo a carico di un mio ex editore, rinviato a giudizio per il suicidio di un collega con l’accusa di violenza privata.

Il volo da Bergamo a Lamezia è arrivato puntuale intorno alle otto. Udienza fissata per le nove, sono andato direttamente in tribunale. Poco dopo il collega che era venuto a prendermi in aeroporto, mi ha portato il trolley mentre aspettavo di essere sentito.

Nonostante quanto accaduto nel tribunale di Milano, quando a inizi di aprile il 57enne Claudio Giardiello uccise tre persone, riuscendo a superare i controlli all’ingresso e introducendo la pistola con la quale avrebbe compiuto la strage, e nonostante quanto proclamato subito dopo dal ministro della Giustizia Andrea Orlando sulla sicurezza nei tribunali, nel palazzo di giustizia di Cosenza non si è sottoposti ad alcun controllo, non esiste metal detector e qualche malintenzionato al mio posto avrebbe potuto avere nel trolley non il necessario per tre giorni di permanenza in un’altra città, ma un arsenale.

Nell’aula accanto alla 7, dove si teneva il processo per il quale ero stato convocato, era in corso un altro processo, a carico di ndranghetisti. Il pubblico ministero era Pierpaolo Bruni, della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro (è stato lui proprio stanotte a mandare in carcere diciannove persone ritenute affiliate alla cosca Perna di Cosenza), che da anni vive sotto scorta. Mi sono avvicinato, durante una pausa, per salutarlo. Ci eravamo conosciuti nel 2007 quando seguivo la giudiziaria a Crotone. In quel momento ho riflettuto: e se io non fossi stato una persona che voleva semplicemente salutare un magistrato di cui, a parte la bravura e la dedizione al lavoro, ricordo le minacce subite durante un processo (uno ndranghestista dalla gabbia degli imputati fece con la mano l’inequivocabile gesto di volergli tagliare la gola), cosa sarebbe potuto accadere? Certo, c’erano i due uomini della scorta che lo seguivano passo passo, ma la “follia” di Giardiello a Milano non tenne certo conto che il tribunale pullalava di carabinieri, poliziotti e vigilanti.

Il processo al quale ero interessato è andato per le lunghe (i teste citati eravamo sette). Io, come tante altre persone (colleghi, avvocati, spettatori), sono uscito e rientrato dal palazzo senza mai che qualcuno si interessasse a me. Il mio trolley è stato portato dentro, poi fuori, poi ancora dentro, man mano che chi lo accudiva mentre testimoniavo, doveva lasciare il palazzo di giustizia.  Controlli sempre zero.

Però mi hanno fermato per una flashata del cellulare, con la quale non avrei certo potuto provocare alcun danno a cose o persone.

A quanto pare, a Cosenza, Milano non ha insegnato nulla.

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