Giustizia

Meditazione sull’ultimo Giuliano Ferrara

11 Dicembre 2014

Ieri sera osservando a “Ballarò” Giuliano Ferrara e assistendo alla  sua intemerata sull’inchiesta romana in atto (“E’ una bufala”!) che riprendeva i contenuti  del suo articolo sul “Foglio” di qualche giorno fa dal titolo  “La Corleone dei cravattari”,  ci  siamo detti  che un uomo intelligente riesce a far stare, solo con la forza delle parole, i sacchi vuoti in piedi. Ma il Ferrara televisivo, spesso volutamente dada o pop, non vale un ette rispetto alla sprezzatura  dello scrittore e stilista Ferrara di cui siamo devoti lettori.

Certo,  fa semplicemente ghignare, seguendo ancora  il Ferrara televisivo, l’asserzione  che se non ci sono morti ammazzati non si può dire che ci sia  mafia. A parte il fatto che i morti ci sono stati, si potrebbero invocare, per restare  sul piano accademico,  non gli scritti del penalista Professor Fiandaca ma gli studi di Diego Gambetta,  che non è certo a partire dai  rivoli di sangue,  lasciati volentieri all’obiettivo di Letizia Battaglia, che  definisce la mafia  come “monopolista della violenza” e “industria della protezione privata su base territoriale”, anche perché si potrebbe eccepire che quand’anche ci fossero le “ammazzatine” ma venissero a mancare per  esempio gli incaprettamenti, le “pungiutine”, le cupole e il linguaggi  ellittici delle“ coppole storte”, ossia  tutti gli “accidenti”  canonici elaborati dalla iconografia e dalla semantica mafiosa siciliana, verrebbe a essere indefinibile  anche la “sostanza”, e sarebbe come voler afferrare concettualmente la carbonara come quel piatto che si farebbe  senza uovo, senza pancetta, e anche senza pasta.

Adoriamo  il Ferrara  stilista e il prosatore in lingua italiana, seguendo in ciò  il conservatore Arbasino che tacciava il comunista Gramsci di ordire in carcere i conformismi  degli intellettuali organici futuri ma restava incantato dal critico teatrale o dal  corsivista di “Sotto la Mole”. Non vogliamo entrare – nella specifica questione della mafia dei cravattari – nel suo universo fantastico di affabulatore, anche perché in un passo del suo articolo definisce  Roma  «città estranea antropologicamente a tutti quelli che ora indagano su di essa»  cadendo così nell’errore di molti siciliani che ritengono che il “genius loci” può essere percepito solo dai geni  locali, essendo ascoso e impenetrabile il mistero della “cosa in sé”  siciliana  ai nati fuori del Triangolo Maledetto . E invece bastarono un sopralluogo e uno sguardo a Damiano Damiani, Pietro Germi e Giorgio Bocca per catturare für ewig  la Sicilia, come basterà a un procuratore allevato a Palermo  e a tu per tu con il crimine fin dalla più tenera età,  saper intuire,  come  Cuvier  dall’ossicino, tutto il “dinosauro” del malaffare romano.

So che c’è anche il Ferrara “smaliziato”, catturato con finezza da Della Loggia nell’articolo sul “Corriere” di qualche giorno dopo,  uno  che dopo aver  frantumato tutti i bicchieri di vodka della morale comunista rifiuta di ingollare il  modesto  cordiale che  invoca  la  morale e la decenza pubblica; un apota che non se la beve  da quel dì, ritenendo machiavellicamente ogni  morale  subordinata alla logica politica. E quella privata giustificabile dalla logica romanzesca.

Adoriamo  il Ferrara retore e stilista, certamente.  Ma ancor più, e torna qui il caso romanzesco,  il Ferrara informatore della CIA, e lo diciamo senza alcuna intonazione  sarcastica, perché troviamo stupefacente e romanzesco questo suo tratto biografico e noi, avendo amato i romanzi sappiamo  che talora  anche i romanzi  amano noi, e volentieri li assecondiamo con l’ironia di un sapido Ferrara che si finge un “barba finta” per puro gusto del travestimento e della contraffazione  dei propri connotati, e anche con qualche intenzione di dileggio del proprio sembiante di intellettuale, tra gli anni comunisti e quelli berlusconiani, ancora in fieri.

Ma ciò che inseguiamo da anni è l’ex, il Giuliano l’Apostata se non si cadesse nel facile nomen omen, sapere cioè  nel dettaglio tutte le movenze psichiche, passo dopo passo che l’hanno portato dai cancelli della Fiat di Torino fino alla corte di Berlusconi: un servizio intellettuale il suo, va detto subito,  reso con dignità, allegria, ridanciana sprezzatura  (sua la definizione di Berlusconi come “Opera pop”), ma talora con ringhiosa e violenta delimitazione del campo.

“Ah il romanesimo”!, esclamava  Gadda che era in qualche modo stufo  di quel mondo chiuso nelle liturgie asfittiche dei Sette Colli, come  confessava al giovane Arbasino con il taccuino pronto a registrare ogni sua parola. Ma c’è romanesimo e romanesimo.  Il padre di Giuliano Ferrara Maurizio, per dire,  era una persona degna e un intellettuale organico a mille carati che da giovani abbiamo  anche stimato.  Aveva il vezzo,  come Antonello Trombadori, di scrivere sonetti in romanesco con il quale spesso duettava. Ma in famiglia occorre segnalare subito  il fratello di Maurizio,  Giovanni Ferrara, zio di Giuliano,  liberale e intellettuale molto serio se si pensa che resistette intellettualmente  su posizioni minoritarie rispetto al rendimento di posizione  degli intellettuali al servizio dei  grandi partiti di massa (il liberalismo è stato sempre questo in Italia: lo strapuntino degli intelligenti solitari). L’ultimo suo libro fu  una meditazione accorata sul “dio che ha fallito” (così Arthur Koestler definiva  il comunismo) attraverso il dolore e la delusione intellettuale del fratello comunista Maurizio, intitolato giustappunto  “Il fratello comunista” (Garzanti 2007). Ciò accadeva quando le idee erano davvero sentite e meditate e tracciavano una traiettoria indelebile  nella vita  adulta e segnavano comunque un destino,  e non un disturbo comportamentale come appaiono oggi nella miserabile epoca dei Grillo e Salvini.

A proposito del liberalismo dello zio,  che probabilmente Ferrara ha inseguito tutta la vita,  c’è un riflesso anche nella sua prosa. Infatti qualche volta Ferrara ha fatto allusione all’intellettuale romano Alberto Ronchey, liberale arcigno e coltissimo, amico e consentaneo dello zio, il quale aveva il dono di una scrittura tersa ed essenziale che   abbiamo  ammirato moltissimo: in due colonne del “Corriere” piombava il mondo.  Ferrara spesso a quel tipo di prosa brillante, nitida, fa riferimento. Non è poca roba. Certo poi azzardiamo  che egli  abbia preso una china psicoanalitica con il suo craxismo prima e berlusconismo dopo, ma possiamo solo alludervi e ricostruirla dall’esterno:  solo lui potrebbe darci il libro della sua formazione e  successiva de-formazione intellettuale, il libro sulla sua exeità come lui stesso la chiama che aspettiamo  con una certa ansia da lettori dei “Demoni” di  Dostoevskij, ma lui preferisce la schermaglia quotidiana piuttosto che la prosa di meditazione, e questo libro sulla sua exeità o  in subordine   il suo  itinerarium mentis in Berlusconem  non ce lo vuole proprio dare con un bel volume ragionato (dopotutto Giampiero Mughini un  “Compagni addio” , in cui faceva i conti con la sua exeità, lo ha scritto).

Ogni tanto, sempre più impazienti, tentiamo un azzardo interpretativo. Le idee da sempre coinvolgono non solo la psiche, ma l’anima e il corpo, e c’è un punto in cui diventano veri e propri  stati d’animo. La gestione dell’exeità, arguiamo, deve  occupare ossessivamente il convertito, il pentito, il rinnegato del gruppo di provenienza, l’ex diventato nel frattempo apologeta del gruppo di arrivo. Forse abbiamo individuato qualche pista. Arthur Darby Nock  nel suo straordinario volume sulla “Conversione” (1933) sottolineava che : “gli apologisti  [cristiani] erano senza alcuna eccezione uomini che erano stati convertiti al cristianesimo, non figli di cristiani. Quindi l’apologia di ciascuno di essi era in certa misura un’apologia pro vita  sua”. E’ una traccia. Sono i rinnegati, i pentiti, i convertiti a scrivere le “apologie” perché scrivendo l’apologia dell’idea che abbracciano scrivono di sé, della propria vita, della propria interiorità, delle proprie viscere. Ecco perché Ferrara lo chiama spesso “l’amore mio”, perché in termini libidinali c’è più Ferrara in Berlusconi che Berlusconi in Ferrara. La “proiezione” avviene tutta da una parte verso l’altra, Berlusconi poco sapendo  o capendo  dello struggimento dell’ex, del rinnegato, del convertito , del pentito,  per la semplice ragione che non ha mai avuto idee, ma, come ogni italiano basico, solo interessi o convenienze,  e tutto questo struggimento di tipo intellettuale non riesce proprio a capirlo.

Solo l’ex ci può dare dunque l’ex? Questa la mia meditazione: solo lo sguardo dall’interno ci può dare il noumeno di una persona o di un luogo?  Forse non è proprio così, com’è vero che la Sicilia ci è stata data dai continentali, e Roma dal milanese Gadda.

 

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