Giustizia

Massimo Bossetti e la presunzione di colpevolezza

3 Novembre 2015

«Esigenze di comunicazione». Con queste parole il colonnello del Reparto Investigazioni Scientifiche dei carabinieri di Parma, tale Giampiero Lago, ha spiegato il motivo della diffusione di un video clamorosamente manomesso, nell’ambito di uno dei casi di cronaca nera più mediatici degli ultimi anni, quello dell’omicidio di Yara Gambirasio, avvenuto nel 2010 a Brembate di Sopra, nel bergamasco.

La storia si muove lungo gli insidiosi confini dell’assurdo: parecchi mesi prima dell’inizio del processo contro Massimo Bossetti, accusato di aver ucciso Yara, tutti i siti e le televisioni del Belpaese hanno fatto vedere al proprio (vasto) pubblico un video con impressa in alto l’effigie del Ris: nelle immagini c’è il furgone di Bosetti che passa e ripassa davanti alla palestra frequentata dalla ragazzina uccisa. Una prova schiacciate, almeno dal punto di vista mediatico: la dimostrazione che il mostro stava puntando la vittima. Chiaro come il sole, argomento fortissimo e, almeno all’apparenza, inoppugnabile.

Eppure di quel video non ce n’è la minima traccia negli atti dell’indagine, al processo l’accusa propone solo degli spezzoni, non il filmato integrale. E perché mai la procura avrebbe deciso di rinunciare a un argomento tanto potente? La risposta è semplice: perché l’argomento non c’è. A svelare l’arcano è stato Luca Telese, nelle vesti di cronista giudiziario per Libero. Il racconto dell’udienza è eloquente.  A un certo punto l’avvocato Claudio Salvagni, difensore di Bossetti, mette alle strette il colonnello Lago: «Colonnello Lago – domanda il legale, abbiamo visto questo video proiettato migliaia di volte. Perché se adesso lei ci dice che solo uno di questi furgoni è stato effettivamente identificato come quello di Bossetti?». Il carabiniere si mette sulla difensiva: «Perché dice questo, avvocato?». Salvagni affonda il colpo: «Perché, colonnello, sommare un fotogramma con il furgone di Bossetti con un altro fotogramma di un altro furgone è come sommare pere e banane». Lago comincia a cedere: «Questo video è stato concordato con la procura a fronte di pressanti e numerose richieste di chiarimenti della circostanza che era emersa». L’avvocato chiede ulteriori spiegazioni: «Cosa vuol dire colonnello?», e così arriva la clamorosa ammissione: «È stato fatto per esigenze di comunicazione. È stato dato alla stampa».

Ecco, il video sarebbe il risultato del montaggio di cinque spezzoni diversi e soltanto in uno di questi si riuscirebbe a vedere in maniera chiara il modello, la marca e il colore del furgone. Gli altri quattro frame sono stati scartati tempo fa dagli investigatori proprio perché non utili ai fini dell’indagine, però sono state diffuse lo stesso «per esigenze di comunicazione». Una cosa da far impallidire l’Orson Welles di «F come Falso», praticamente un boccone da lanciare nella vasca degli squali per placare loro la fame. Esistono delle prove per la stampa e delle prove per i tribunali, e non sempre coincidono.

Siamo ancora alle battute iniziali del processo e di elementi contro Bosetti non ce ne sono affatto pochi – poi si vedrà quanti resteranno intatti dopo il passaggio della difesa -, ma scoprire così che i carabinieri hanno deliberatamente deciso di diffondere un video a tutti gli effetti falso dice molto sul modo in cui viene raccontata la cronaca nera sui giornali e sulle televisioni italiane, oltreché su come vengono condotte le indagini, verrebbe da aggiungere anche se è un altro discorso (forse). Leonardo Sciascia parlava di una «cultura delle manette» che nasce da una «cultura dell’indiscrezione», puntando il dito sui curiosi rapporti che «certe» redazioni hanno con «certi» uffici giudiziari. Insomma, il gioco è semplice: durante la fase d’indagine, solitamente molto lunga, gli interlocutori dei cronisti sono esclusivamente gli uomini dell’accusa: procuratori, poliziotti, carabinieri. Gli avvocati difensori sanno tra il poco e il niente, e non è raro che vengano a sapere le cose leggendo i giornali. Più vanno avanti le indagini e più il castello accusatorio sembra enorme, insormontabile: mesi e mesi di veline e indiscrezioni che finiscono direttamente in prima pagina e contribuiscono a costruire un mostro perfetto. Soltanto dopo, di solito, arriva la difesa e smonta tutto, o gran parte, o comunque fa presente che le cose non sempre sono andate come viene scritto negli atti dell’indagine. In fondo i processi si fanno per questo: c’è un accusa, certo, ma c’è anche una difesa, e l’onere della prova spetterebbe alla prima. Vale la pena ribadire il concetto: si è innocenti fino a prova contraria, non colpevoli fino a che non si riesce a dimostrare la propria estraneità ai fatti. In teoria, l’iscrizione nel registro degli indagati sarebbe una garanzia, il modo con cui si viene avvisati che vengono fatti degli «accertamenti» non a propria insaputa – possono esserci miliardi di motivi, non tutti loschi, per farli – e non è raro che, alla fine della fiera, ogni cosa si risolva con un’archiviazione: è statistica. Nei salotti televisivi, invece, essere indagati vuol dire avere già un piede nella fossa, il resto è tutto un tiro al piccione, facilissimo per gli opinionisti che affollano i programmi del pomeriggio e i rotocalchi della sera. L’indagato, che spesso non conosce i ritmi e i tempi dell’informazione, viene travolto e impallinato e finisce inevitabilmente con il dire qualche cazzata. Da lì la strada è praticamente segnata: colpevole o innocente non è importante.

Bossetti ha gestito l’affare mediatico in maniera tremenda: i suoi psicodrammi familiari e qualche uscita non esattamente felice l’hanno reso un bersaglio facilissimo. Può essere questa una colpa? Attenzione, la cronaca nera è una brutta bestia: vivere per settimane tra interrogatori, soubrette televisive che si improvvisano espertone di Dna, intercettazioni con la tua vita privata sparate a tutta pagina e stormi di giornalisti che ti volteggiano sopra la testa è un’esperienza orribile. Quello che succederà al processo, adesso come adesso, è importante solo fino a un certo punto: quanti scommetterebbero sulla sua innocenza? Nel paese del caso Tortora ecco che torna l’ombra di Girolimoni.

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