Giustizia
Malagiustizia e malainformazione
Non potrebbe esistere la malagiustizia che ci ritroviamo se non esistesse la malainformazione che alimentiamo. Ovviamente ciascuno risponde di quel che scrive e dice, non avendo alcun motivo per rispondere di quel che dicono e scrivono altri, ma l’insieme dell’informazione, quando si parla di giustizia, si riduce a un solo prodotto: lo spettacolo dell’accusa. Non è la malafede e la faziosità, che pure esistono, eccome, ma sono meglio localizzabili e riconoscibili, è qualche cosa di più profondo, di culturalmente infetto: la convinzione che l’innocenza sia solo un’accusa non dimostrata. Si osservi il caso di Guido Bertolaso, per potere toccare con mano.
Non è un caso isolato, anzi: è comunissimo. Non è una questione di schieramento, perché roba analoga si trova ovunque (l’assoluzione di Vincenzo de Luca ha scatenato le critiche contro Rosy Bindi, che lo definì “impresentabile”, ma si fa finta di non sapere che lo era, a causa di una legge ipocrita e liberticida, falsamente moralizzatrice, la Severino, che stabilisce la sospensione in capo a cittadini costituzionalmente da considerarsi innocenti, quella è la roba indecente, come ogni politico che non lo sappia dire). Non è neanche una questione di sole lungaggini processuali, perché in questo caso sono state meno macroscopiche che in altri. Il punto è: quando scatta l’accusa si pubblicano prime pagine una appresso all’altra, ore di televisioni, fiumi di parole; quando il procedimento si muove si continua a riprodurre e amplificare le tesi dell’accusa; quando il processo giunge a sentenza e l’imputato viene assolto, la notizia va in cronaca. Fra quella giudiziaria e quella di costume, con qualche puntata nella polemica politica.
Nessuno creda che la vittima di ciò sia Bertolaso, giacché egli lo è quanto tutti quelli, tanti e troppi, che subiscono quel trattamento, le vittime sono, andando dal particolare al generale: a. la protezione civile; b. l’Italia; c. la giustizia; d. il diritto. Questo meccanismo crea solo convinzione di colpevolezza, disonore collettivo, neutralizzazione di ogni possibile cambiamento (che presuppone una meritocrazia così annientata), per culminare nell’umiliazione del diritto e dei diritti. Al punto che s’esclude esista la giustizia.
Altra conferma? Eccola: se un sindacato di toghe, l’Associazione nazionale magistrati, emette un fiato, tutti a scriverne e a commentare; se un’associazione di altre toghe, l’Unione delle camere penali, si riunisce a congresso, chi se ne importa e non si scrive nulla. Per carità, può ben essere che i primi dicano cose interessanti e i secondi no. Ma è possibile che sia sempre così? Il fatto è che a guidare i primi e a parlare in loro nome sono quasi sempre rappresentati dell’accusa, mentre i secondi, per mestiere, sono la difesa. Partendo dal presupposto che, fra noi tutti, il più pulito abbia la rogna, è facile comprendere quando siano poco entusiasmanti le riflessioni di chi difende per mestiere, mentre assai più pregnanti sono le tesi di chi accusa. Il che vale sempre, salvo quando ci capita d’essere fra gli accusati o fra i loro amici. In quel caso si parla di “errore giudiziario”. Magari così fosse, in realtà è assenza di giustizia.
Infine, da giorni si parla della riforma della giustizia e dei problemi politici che crea al Senato, compreso il pericolo che il governo cada. Interessante, ma lo sarebbe di più studiare quella riforma, appurando due semplici cose: 1. nel Paese in cui i procedimenti sono mostruosamente lunghi, la riforma s’industria a cercare d’allungarli, sospendendo i termini della prescrizione; 2. in un sistema in cui i termini che deve rispettare il cittadino sono “perentori”, ovvero fissi e decisivi, mentre quelli dell’accusa e dei giudici sono “ordinatori”, ovvero solo indicativi, si stabilisce che una volta finite le indagini il procuratore non deve subito decidere l’ovvio, ovvero se archiviare o chiedere il processo, ma se perde troppo tempo la cosa viene avocata dal capo della procura, quindi il cittadino indagato resta fra color che son sospesi, in attesa che quei termini significhino qualche cosa e diventino perentori e uguali per tutti. Ciò per dire che i problemi politici della riforma sono avvincenti, ma quel che è più importante è che la riforma non riforma nulla di utile. Possiamo fare a meno dell’ennesimo falso cambiamento.
In copertina Guido Bertolaso, foto di Roberto Ferrari tratta da Flickr (CC)
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