Giustizia

MafiaCapitale. Se il Metodo Pignatone vince sul Protocollo Ingroia

2 Dicembre 2014

Quando dal terminale delle agenzie cominciavano ad uscire i primi lanci sull’operazione Mafia-Capitale “Mondo Di Mezzo”, quasi non ci si credeva sul tipo di reato contestato agli indagati “eccellenti” della politica capitolina di destra e sinistra: a cominciare dal 416bis “full” contestato a Gianni Alemanno: né favoreggiamento, né concorso esterno ma associazione a delinquere “piena” di stampo mafioso a carico dell’ex sindaco di Roma. La condotta criminale che la Dda di Roma dunque contesta ad Alemanno & Co è di quelle “toste”, tanto che in conferenza stampa è lo stesso procuratore capo di Roma a ritenere l’indagato come pieno appartenente nel sodalizio che vedeva Massimo “er cecato” Carminati tra gli esponenti di punta in un quadro “non esaltante che ha raggiunto entrambi gli schieramenti politici”. Quasi non ci si credeva non foss’altro che, a memoria di cronista, Giuseppe Pignatone non sembra quel tipo di magistrato che tira a casaccio i reati delle inchieste come fossero dadi sul tavolo verde del craps al casinò. Il procuratore capo della Capitale, con una lunga esperienza maturata a Palermo dai tempi di Falcone fino ad essere stato l’aggiunto di Pietro Grasso per poi ricoprire l’incarico di procuratore capo a Reggio Calabria prima di approdare a Roma, è ritenuto da molti giuristi, magistrati ed avvocati un “uomo di dottrina” (giuridica, non politica) molto attento alla configurabilità dei reati.

Un esempio tra tutti fu lo scontro nella procura antimafia di Palermo tra Grasso e i c.d. Caselliani (capitanati da Scarpinato e Ingroia) sul reato da configurare a Totò Cuffaro. Per l’ex presidente della Regione Sicilia, Grasso su input del suo braccio destro “di dottrina” – l’allora Procuratore Aggiunto di Palermo Pignatone – optò per il favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra mentre i Caselliani la buttarono in caciara perché volevano si contestasse a tutti i costi il concorso esterno in Mafia, il “must” di certa antimafia inquirente più volte sanzionata con sentenze della stessa Cassazione (processo Mannino). Alla fine della fiera, in Cassazione vinse la linea Pignatone con un reato più tipizzante e meno vacuo rispetto alla condotta processuale palesata nell’inchiesta sulle c.d. talpe in procura e sui fiancheggiatori di Provenzano. I pm caselliani del Protocollo Ingroia ostinatamente cercarono di imbastire un processo clone per concorso, dal quale però uscirono sconfitti con tanto di richiamo del giudice che ai Pm ricordarono il principio basilare – comune alle matricole di giurisprudenza – come il “Ne Bis In Idem”, ovvero: non si può processare due volte un imputato per la stessa cosa.

Ergo, se la storia tanto-ci-dà-tanto, se la storia ci consegna un magistrato attento alla dottrina giuridica, se Pignatone ha scelto un reato così “tosto” come il 416bis tanto per politici come Alemanno quanto per i “metropolitani” del Pd, c’è da immaginare che la procura Antimafia di Roma da lui guidata sia convinta di varcare il vaglio del giudice terzo Gip (che ha già ratificato  i primi arresti) e del Gup che dopo dovrà vagliarne l’eventuale rinvio a giudizio, a meno di colpi di scena che in punto di garanzia possono sempre venir fuori, per carità. Non meno di un anno fa, Pignatone prese parte proprio come relatore in un forum di giuristi intitolato “Ripensare l’Antimafia” organizzato dal professore Giovanni Fiandaca, che inevitabilmente toccava un tot di criticità circa l’attualità del 416bis e che in diversi processi di nuova generazione, soprattutto al Nord, non sempre ha però retto al vaglio del giudicante per la posizione di alcuni imputati. Questo perché oggi, sulle c.d. nuove mafie da Roma fino a Milano, è pacifico come vi siano anche condotte mafiose non necessariamente riconducibili alle “punciutine” ed alle dinamiche tradizionali delle cosche per come da una trentina di anni fino ad oggi le detta il codice. Lo stesso Fiandaca ritiene infatti come al 416bis oggi serva un coraggioso update “estrapolando l’elemento sociologico” da quel reato (intento riformatore che certa “travagliata” antimafia militante e mediatica addita come “normalizzazione”, nonostante perfino Falcone nutrisse serie perplessità sul 416bis). Tuttavia nell’operazione Mafia Capitale, spiega Pignatone alla stampa, non c’è la cupola tradizionale per come l’abbiamo sempre conosciuta nei cliché palermitani ma una associazione decisamente “originale” nella sua composizione ed organizzazione, mentre pervasività, piglio criminale e target sul territorio politico-socio-economico dell’area metropolitana di Roma – secondo l’inchiesta “Mondo Di Mezzo” – ci stanno tutti. Insomma. Interessi, modalità e target criminali, per nulla diversi da quelle finora conosciute via Mafia tradizionale.

Il Modello Pignatone però non si ferma solo in punto di dottrina: ed è anche capace di avere proprie strategie al vertice dell’ufficio in materia di Mafia&Politica. In una memorabile audizione che quattro anni fa tenne davanti ai commissari dell’antimafia, l’attuale capo della procura romana esibì il proprio bilancio come procuratore capo di Reggio Calabria, dove pure si fece notare facendo in un paio di anni ciò che nessun capo calabro in quel distretto fece dal dopoguerra ad oggi (incluse le operazioni fatte in concerto con Ilda Boccassini della Dda di Milano). Ai commissari di San Macuto spiegò come, nonostante la carenza di nuovi Pm mai inviati dal Csm a rinforzo delle Dda calabresi (perché è di ‘Ndrangheta, vera mafia attualmente dominante che si parla, a dispetto di quella siciliana dove di Pm nei distretti non ne mancano), scelse di adottare precisi criteri di priorità per le indagini di Mafia, un sorta di raccolta differenziata quasi come un District Attorney americano. Roba cara a Giovanni Falcone – diremmo –  convinto com’era dalle esperienze fatte negli States, dei limiti sulla c.d. obbligatorietà dell’Azione Penale. “E’ inutile – disse Pignatone all’Antimafia – che io riempia Gip, Tribunali e Corti d’Appello di migliaia di processi che non saprò se e quando mai riusciranno a portarli a termine, dunque è per questo che ho sempre puntato a colpire i capi carismatici delle associazioni mafiose e i loro interessi economici principali”. Anche qui: se il Modello Pignatone tanto-ci-da-tanto, l’operazione sulla Mafia Capitale è di questo che parla e non di certe fumose inchieste e certi processi come quelli imbastiti a Palermo dagli amanti del Protocollo Ingroia che fanno impallidire persino la collana Urania.

Il Modello Pignatone, come è noto, non sta proprio-proprio simpatico agli adepti del Protocollo Ingroia e a certa antimafia militante e mediatica che ancora oggi osanna Massimo Ciancimino come oracolo dell’Antimafia. Con ogni probabilità, Pignatone, sconta il fatto d’essere stato il peggior nemico di Vito Ciancimino ed eredi. Nel 90 fu proprio Pignatone a condannare per 416bis l’ex sindaco di Palermo in un processo che ebbe pure risvolti da sit-com in udienza: quando al processo di Palermo Vito Ciancimino, con fare spaccone, ai giudici disse che venne sequestrato solo una minima parte del proprio patrimonio. Fu a quel punto, con anglosassone sarcasmo, che il PM Pignatone – guardando in faccia i giudici – disse: “l’imputato Ciancimino vuole forse darne conto della restante parte in questo processo?”. Gli anni passano e in Cassazione passa pure in giudicato la condanna definitiva per il corleonese Don Vito Ciancimino: ma Pignatone non si ferma solo a quella storica vittoria processuale. Da procuratore aggiunto di Palermo sequestra soldi all’erede Massimo Ciancimino. Da procuratore capo di Reggio Calabria becca l’Erede con le mani nel barattolo di marmellata calabra mentre tenta di riciclare soldi con Girolamo Strangi, indicato dai Pm come commercialista/faccendiere dei Piromalli. Come procuratore capo di Roma, sequestra la Ecorec in Romania: la più grande discarica d’Europa finanziata con i soldi dell’asse ereditario di Don Vito, sulla cui vicenda invece – peraltro – il Protocollo Ingroia ne chiese due volte l’archiviazione al Gip di Palermo. Insomma, il Metodo Pignatone vince sul Protocollo Ingroia. La cosa non va giù a certa sguaiata antimafia priva di argomentazioni e carica di bufale goebbelsiane: che perfino nella conferenza stampa dell’operazione Mafia Capitale fanno pure capolino con la domanda di una cronista. “Perchè solo ora Carminati che è in attività da decenni? Ci sono pure state coperture dei servizi segreti?”, chiede capziosamente la cronista che tenta – senza successo alcuno – di trascinare i presenti sul mood dei cumpluttuni montati dall’Urania palermitana. Gran risposta secca di Pignatone: “vorrei ricordarLe che sono in servizio a Roma come procuratore capo dal marzo 2012”. Che dire, lezioni di stile: applausi.

A Palermo oggi c’è il fumo, a Roma (e Milano) l’arrosto.

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