Giustizia
La storia non si riscrive
Un giornalista radiofonico del Bayerischer Rundfunk confida che la sua redazione non ha voluto parlarne per non offrire un proscenio alla protagonista ed infatti non c’è nessuno dei loro reporter, né alcun inviato da agenzie stampa. Solo un paio di free-lance ed un manipolo di simpatizzanti dell’imputata. In un’aula del Tribunale di Monaco di Baviera siede ancora a giudizio Sylvia Carolina Stolz, ex avvocato difensore del negazionista Ernst Zündel. È imputata per un discorso pubblico tenuto a Coira, in Svizzera, cinque anni fa in una “conferenza contro la censura” in cui ha sostanzialmente negato la Shoà. Chioma brizzolata, occhiali con lenti rotonde in una sottile montatura metallica, perennemente vestita troppo leggera ad ogni udienza si mette sulle spalle un pellicciotto, grigio anche quello. Già pregiudicata per negazionismo, formalmente è stata pure già condannata in appello in via definitiva per il discorso che ha fatto a Coira, ma con rinvio al tribunale, presieduto dalla giudice Holstein, per decidere nuovamente sull’entità della pena. I magistrati hanno riesaminato integralmente le accuse in un’intera nuova istruttoria [come si può leggere più diffusamente qui http://www.glistatigenerali.com/giustizia/cita-elie-wiesel-e-primo-levi-per-negare-la-shoa/ e qui http://www.glistatigenerali.com/germania_giustizia/la-rincorsa-per-la-cattura-della-memoria-nelle-aule-di-giustizia-tedesche/].
Oggi, 15 febbraio (anniversario dei bombardamenti alleati di Dresda condotti dal 13 al 15 febbraio 1945) il dispositivo della sentenza, è la 13ma udienza dall’inizio del giudizio di rinvio il 18 settembre 2017. L’imputata è condannata, come da richiesta del Procuratore, ad un anno e sei mesi di reclusione senza sospensione condizionale ed a sopportare i costi del procedimento. [Caso protocollo 4 KLs 11 Js 13722/13(2)]
La giudice Regina Holstein esordisce, siamo vincolati al diritto della Repubblica tedesca, il 25 gennaio 2015 il tribunale di Monaco ha già stabilito che il discorso del 24 gennaio 2012 in cui l’imputata ha più volte insistito che si dovrebbero ancora stabilire singolarmente tutte le circostanze della Olocausto è equivalso a negarne la realtà storica, per quanto ammantandolo in un discorso di teoria del diritto. Anche in revisione la Corte d’Appello il 3 maggio 2016 ha confermato il giudizio e verificato che non sussistono collisioni con altre norme quali la Convenzione sui diritti dell’uomo. Ha solo rimesso il giudizio a questa Corte per la definizione della pena. Non siamo una super istanza e non avevamo spazio per un’assoluzione. Avremmo potuto eventualmente sollevare un’incidente costituzionale ma non ne abbiamo riscontrato le premesse. D’altronde la stessa imputata dopo la condanna di primo grado avrebbe potuto adire la Corte Costituzionale ma coscientemente non lo ha fatto. Abbiamo comunque effettuato una nuova completa istruttoria in cui l’imputata ha avuto naturalmente modo di prendere posizione.
La Corte ha così potuto verificare che l’imputata non è da dissuadere dalle sue posizioni. Era già stata condannata dal Tribunale di Mannheim a tre anni e tre mesi di reclusione, è stata radiata dall’Ordine degli avvocati e ciò nonostante non ha soprasseduto a ricommettere il reato. A suo favore possiamo rilevare che ha ammesso la paternità del discorso per cui è stata rinviata a giudizio, un’ammissione oggettiva di colpa; purtroppo non soggettiva, non ha manifestato alcun pentimento. Ha anzi insistito anche in aula nel ribadire le sue tesi. A suo favore possiamo rilevare che il discorso non è stato tenuto in tono agitatorio; nondimeno abbiamo visto il filmato ripreso alla conferenza ed abbiamo notato che nella sala c’erano anche molti giovani che l’imputata ha mirato ad influenzare nel loro percorso di crescita col suo modo di pensare. L’imputata vedeva poi le telecamere e non poteva non essere cosciente che grazie ai nuovi media le sue tesi avrebbero trovato addirittura diffusione mondiale. Il difensore ha cercato di sostenere che si fosse rattato di un discorso spontaneo, ma solo su sé stessa l’imputata ha parlato fuori da registri, per il resto ha invece letto da un manoscritto preparato prima, facendo pause ad effetto e ripetendo tesi e concetti, come ha fatto anche in aula.
L’imputata ha insistito nelle sue convinzioni forte come un leone, nonostante fosse sotto vigilanza per la condanna precedente, ad appena un anno dal rilascio nel 2011 ha tenuto il suo discorso negazionista in Svizzera. La Corte perciò non ritiene possano esserci le premesse né per una condanna meramente pecuniaria, né per una sospensione della pena, pure tenendo conto che il diritto Svizzero avrebbe previsto per lo stesso reato una pena massima di tre anni mentre in Germania è di cinque. L’imputata “è incorreggibile”, indica espressamente la giudice Holstein. Non si può arrivare ad una sua prognosi sociale positiva ai sensi dell’articolo 56 del codice penale. L’accusata non ha detto neanche nulla sulle sue condizioni personali per poter giungere a conclusioni diverse. Intelligente e dai modi affabili, ma “è un’incendiaria delle coscienze”. Naturalmente l’imputata ha ancora modo di depositare ricorso entro una settimana.
Rivolta all’avvocato difensore d’ufficio, Wolfram Nahrath, un passato giovanile nell’organizzazione neonazista Wiking Jugend, la giudice Holstein ha sottolineato che la sua osservazione espressa nelle conclusioni che la Corte d’Appello “sia caduta in una trappola”, mostra il suo modo di pensare. Egli ha indicato che fino al 1994 l’Olocausto si potesse negare liberamente. Il dibattito per introdurre la norma dell’articolo 130 del codice penale tedesco è in realtà durato 10 anni ed il legislatore sapeva bene il perché ha introdotto la norma; così come i giudici d’appello, che hanno un’ampia esperienza, hanno poi escluso che essa in questo caso non dovesse essere applicata. Si può forse dibattere se sia stato ucciso un signor Maier, ma non certo tutto l’Olocausto nel suo complesso. Non c’è libertà assoluta di libertà di pensiero in pubblico, essa può essere limitata. Lo statuisce la stessa Convenzione della Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 1966 al secondo comma dell’articolo 19 che il difensore eletto (oggi assente) aveva citato nelle sue conclusioni chiedendo di disapplicare la norma penale tedesca.
Sylvia Carolina Stolz, rinuncia a farsi ripetere ancora che può presentare appello ed alzandosi per andarsene ancora a piede libero apostrofa la Presidente con “Dio sia con lei”. Incassando la risposta della giudice Holstein “grazie per l’augurio”. L’avvocato Nahrath interviene e ribatte “la signora Stolz ha presentato una visione giuridica diversa nelle sue istanze” e lasciando l’aula la Presidente di rimando lo invita a farle valere nelle istanze opportune. Dal pubblico dei pochi affezionati amici dell’imputata si levano voci “tutto come sempre”, “non può essere vero!”.
L’avvocato Nahrath alla domanda se intende ricorrere in appello risponde secco “Ovvio!” e fuori dall’aula tiene banco dicendo che sono circoli ben determinati che hanno voluto la legge sul divieto della negazione dell’Olocausto. In Germania si può mettere in discussione qualsiasi altro eccidio. Omette di indicare però che l’Olocausto è quello perpetrato dai tedeschi e che ha segnato tutta l’Europa nel ventesimo secolo, della cui messa in discussione il legislatore del suo Paese intende non siano più infangati i morti.
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Un passo indietro alla dodicesima udienza, il 5 febbraio 2018, quando la Presidente ha chiuso la fase probatoria dando la parola al procuratore per esporre le sue conclusioni il dr. Strafner aveva elencato asciutto gli argomenti a discarico ed a carico dell’imputata. In suo favore che il discorso non fosse stato tenuto in tono agitatorio e che fossero passati cinque anni dai fatti; a suo carico l’accessibilità e propalazione via internet della sua registrazione (anche se non è provato che l’imputata stessa l’avesse diffuso e neppure saputo) e che nonostante una precedente condanna, dopo aver perso la licenza di avvocato ed essere stata radiata, fosse ricaduta nello stesso reato. Inoltre, per come aveva argomentato ancora nel procedimento il procuratore concluse sarebbe stato prevedibile che per i propri convincimenti politici avrebbe potuto ricommetterlo. Con ciò concluse domandando una condanna ad un anno e sei mesi senza sospensione condizionale, più le spese.
Il primo difensore, l’avvocato Wolfram Nahrath, aveva invece insistito sulla particolarità del caso: la prima volta che una condanna era stata emessa non per una singola affermazione bensì per un discorso nel suo complesso e l’impressione che se ne traeva per quanto non esplicitatovi. La sua assistita avrebbe inteso solo dimostrare le difficoltà per un difensore nel trattare criticamente un tema tabù come l’Olocausto. L’episodio ascritto all’imputata si era consumato a Coira ed avrebbe dovuto essere giudicato secondo il codice svizzero che prevede una pena meno severa.
In Germania il reato è inserito nel terzo comma dell’articolo 130 del codice penale che indica che chi in un discorso pubblico giustifica, mente, o sminuisce, i crimini perpetrati durante il nazionalsocialismo, così come definiti nell’art 6 del codice penale del diritto dei popoli (Völkerstrafgesetzbuch), in modo idoneo a minare la pace sociale, è punito con la pena fino a 5 anni od una multa. Il quarto comma della stessa norma, (riferito specificamente a chi in una manifestazione pubblica offenda anche la dignità delle vittime), è stato sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale che nel 2009 lo ha pienamente legittimato, ma ha sancito debba essere applicato in via restrittiva. L’accusa invece ne aveva suggerito, secondo l’avvocato Nahrath, un’applicazione estensiva ed arbitraria. Il difensore aveva quindi discettato sul fatto che lo stesso ex Ministro dell’interno Otto Schily avrebbe affermato che per un reato di opinione sarebbe tutt’al più ammissibile solo una pena pecuniaria.
Quindi aveva sottolineato che le frasi salutate da maggiori applausi estrapolate nell’atto di accusa quali “il popolo tedesco si alza in piedi” non si riferissero affatto singolarmente all’Olocausto, bensì sottolineassero che la BRD è stata creata dagli Alleati come avrebbe indicato persino uno dei padri fondatori, Carlo Schmid (SPD), l’8 settembre 1948 al voto della Costituzione. Non c’è certezza storica scolpita: per anni, afferma Nahrath, si sarebbe ritenuto che a Bergen-Belsen e Dachau ci fossero gassati ma è acclarato che non è stato così. In verità a Dachau c’è una camera a gas, ma vi è chiaramente pure indicato che essa non entrò mai in funzione, ed il legale non aveva specificato poi quando e da chi sarebbe stato sostenuto che a Bergen-Belsen ci fossero state delle camere a gas.
Non si sarebbe dovuto ritenere che l’imputata potesse ricadere nel reato, aveva sottolineato ancora il difensore; dal 2012 non aveva più tenuto discorsi pubblici sull’argomento; né si sarebbe dovuto fare valere come aggravante come ella sessa aveva argomentato a propria difesa. La Corte nonostante quanto aveva affermato il Procuratore, aveva rimarcato ancora l’avvocato Nahrath, non doveva sentirsi vincolata alla condanna pronunciata dall’istanza superiore di rimando, e concluse sottolineando che lui non avrebbe potuto fare sogni tranquilli se fosse stato giudice e avesse dovuto decidere di condannare per una parola non detta. In verità l’imputata di parole ne ha dette tante: in una delle sue memorie difensive ha collazionato frasi di Elie Wiesel e Primo Levi per sostenere ancora indirettamente in aula che non c’è certezza storica univoca sulla Shoà. Ascoltandola se ne aveva l’impressione di una scellerata lucidità maniacale, una paladina che volesse sgravare la Germania infangata dalle menzogne.
Poi il secondo difensore l’avvocato Martin Kohlmann, una passata militanza nei partiti di estrema destra DSU e Republikaner, con tono retorico aveva indicato che c’è un’istanza superiore a cui tutti, anche i giudici, saranno sottoposti. Ringraziò il procuratore per come avesse riconosciuto apertamente che l’imputata era “perseguita per le sue opinioni politiche”. Aveva quindi ribadito che non ci sono certezze storiche statuite e transitando dagli insegnamenti avuti nella DDR, per arrivare ai suoi dubbi sulla la teoria evolutiva, citò poi un articolo sullo Spiegel, non indicando bene quale, che avrebbe riportato che un esperto in crematori aveva statuito che per le dimensioni in quelli di Auschwitz non vi potessero essere state cremate quattro milioni e mezzo di vittime ma solo mezzo milione. Se la Corte non avesse statuito quali erano i fatti storici che l’imputata non avrebbe dovuto scalfire sarebbe venuta meno la certezza del reato. L’imputata non ha detto che non ci fu l’Olocausto, ma che mancano sentenze che ne definiscano con precisione i confini, aveva indicato. Non vi è chi non veda come sia capziosa la argomentazione.
Diretto al Procuratore, l’avvocato Kohlmann aveva indicato che l’accusa avrebbe dovuto verificare il numero effettivo dei presenti al discorso in Svizzera e non limitarsi a far valere che l’imputata stessa avesse detto che c’erano almeno mille persone. Poi, cercando l’assist, per dirla in termini tennistici, aveva citato la Convenzione della Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 1966, indicando che è grazie ad essa che negli Stati firmatari non possono valere il diritto di libertà religiosa inteso come in Arabia Saudita o la libertà di stampa vigente in Turchia. Pure il terzo comma dell’articolo 130 del codice penale tedesco sarebbe stato incongruente con la libertà di pensiero riconosciutavi nell’articolo 19, e per l’effetto i giudici della quarta sezione avrebbero dovuto disapplicarlo come norma confliggente assolvendo l’imputata.
In realtà la convenzione di diritto internazionale, ha fatto notare il procuratore dr. Strafner fuori udienza, non ha valenza superiore alla norma interna e non può far soprassedere all’applicazione di quest’ultima. Semmai potrà ancora essere fatta valere in sede sovranazionale, esauriti tutti i gradi di giudizio interno. Ad ogni buon conto l’obiezione, così come un eventuale incidente costituzionale, a cui pure nel corso del dibattimento la difesa aveva cercato di muovere il tribunale, dovevano essere fatti valere in primo grado od innanzi alla corte d’appello.
L’imputata aveva esercitato il diritto di prendere per ultima la parola. Emozionata, per la prima volta evidentemente si era resa conto che la Corte non avrebbe potuto decidere in suo favore ed aveva pronunciato quasi un anatema: se i giudici avessero pronunciato una condanna sarebbero stati perseguitati nello spirito.
Lo hanno fatto.
Immagine di copertina: dettaglio della locandina di una messa in scena del dramma “Mein Kampf” di George Tabori, foto dell’autore.
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