Giustizia

La sfiga di chiamarsi Stefano Cucchi e non Ruby Rubacuori

12 Marzo 2015

Portate per un attimo pazienza però, a meno che non vogliate meramente derubricare la faccenda ad un film di Mel Brooks o ad una serie di puntate del Bagaglino. Mettiamo per un attimo da parte il modus vivendi di Berlusconi e occupiamoci di un solo aspetto del modus operandi. Ammettiamo pure – e prendiamo per buono – come alla fine della fiera ognuno in casa propria fa quel che gli pare, com’è giusto che sia. Ammettiamo pure che una parte significativa di questo Paese accetti pure il rischio di un premier ricattabile. Ammettiamo pure e perfino che qualcuno possa pure esserci cascato nella favola della nipote di Mubarak, anzi: ammettiamo pure e persino per ipotesi che fosse stata veramente la nipote di Hosni. Ammettiamo pure, dobbiamo farlo per forza di cose davanti ad una sentenza definitiva, che Berlusconi non fosse a conoscenza della reale età di Ruby. Ammettiamo pure che per un attimo si possa (e debba) mettere da parte anche l’aspetto delle prudenze, quelle hard, quelle burlesque, quelle delle cene eleganti applicate al caso processuale e che in queste ore sembrano essere argomento prevalente di dibattito via politici, giornalisti, osservatori, opinionisti e social influencer che dir si voglia.

Mettiamo per un attimo da parte persino l’aspetto giudiziario. Del resto, non possiamo mica pretendere che i magistrati s’inventino pure le leggi (oddio, qualche sconsiderato ci ha provato pure e tuttora ci prova). Non foss’altro che la sentenza Ruby appare, anche agli occhi dei giuristi, ineccepibile: un po’ meno – però – la riforma del reato di concussione varata dall’ex ministro Severino concepita e partorita a procedimento in corso. Mettiamo per un attimo da parte perfino il fatto che quella riforma prima e la fonte giurisprudenziale di Cassazione che il processo Ruby ora paleserà, renderanno forse problematico dimostrare la concussione nei processi per corruzione. Mettiamo pure da parte, per un attimo, pure il pasticcio notturno lungo la catena di comando della questura milanese: “dottoressa, abbiamo la nipote di Mubarak”, Pm Fiorillo ”e io sono Nefertiti, Regina del Nilo”.

Proviamo ad ammettere tutto e mettere da parte tutto, tranne una sola cosa, non sapremmo quanto sostenibile: quella telefonata. Solo e soltanto quella telefonata. Marco Pannella, in un’intervista rilasciata al gruppo QN (Resto del Carlino, Il Giorno, La Nazione), nel commentare l’esito della sentenza definitiva sul caso Ruby ha messo sullo stesso piano Silvio Berlusconi ed Enzo Tortora, sottolineando una persecuzione giudiziaria nel confronti del fondatore di Forza Italia in virtù “di fatti privati e non pubblici”. Ammettiamo sia pure vera la natura persecutoria della magistratura benché Ilda Boccassini, ancor più il pubblico ministero Antonio Sangermano che ha rappresentato l’ufficio della pubblica accusa in tutto il processo di primo grado, non pare proprio abbiano il piglio di un discutibile magistrato napoletano ai tempi di certi processi alla NCO e nemmeno quello di un Ingroia qualsiasi. Epperò, ora, fatta la tara del dato biografico, non indifferente, che Enzo Tortora era un giornalista e non un presidente del consiglio che alza il telefono, davvero dovremmo prendere in considerazione pari-pari questa pubblicità comparativa?

“Una telefonata allunga la vita”, recitava il mitico spot televisivo. In effetti, Karima El Mahroug in arte Ruby da questa storia ne è uscita più “viva” che mai, grazie anche alla consegna della questura ad un non meglio identificato “Consigliere Ministeriale Regionale Presso La Presidenza del Consiglio Dei Ministri”, così per come fu annunciato (sempre via telefono) l’arrivo notturno di Nicole Minetti in quegli uffici della questura milanese; con una qualifica, peraltro, che farebbe arrossire persino il tatapìo-tapìoco della supercazzola di Ugo Tognazzi nell’Amici Miei di Monicelli, altro che Mel Brooks.

Peccato però che nessuna telefonata notturna simile arrivi ogni volta ai tanti “comuni cristiani” fermati in questura o in caserma, che non possono fruire di interventi ad personam da parte di un premier: e mica da parte di un presentatore televisivo. Peccato che in un bel tot di drammatici casi, i “comuni cristiani” non ne siano usciti proprio-proprio vivi. Davvero trattasi, nel caso della sola telefonata in questura per Ruby, meramente di “fatti privati e non pubblici”?

Domanda: la sfiga di chiamarsi Stefano Cucchi e non Ruby Rubacuori, è un fatto pubblico o privato?

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