Giustizia
La schizofrenia del Diritto di Famiglia: quando la legge smarrisce la giustizia
Oggi, l’articolo 570 bis del codice penale si applica al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero viola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli.
Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare è disciplinato dall’articolo 570 del Codice Penale ed è volto a difendere l’istituzione matrimoniale ed i vincoli connessi.
Tale articolo (570 bis CP) è in vigore dal 6 aprile 2018, introdotto dal decreto attuativo n. 21/2018 della delega legge n. 103/2017.
Il decreto legislativo n. 21/2018 stabilisce l’abrogazione sia dell’art. 12 sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 che dell’art. 3 della legge 8 febbraio 2006, n. 54
É punito con una multa fino a 1032 euro e la reclusione fino ad un anno di carcere chiunque si sottragga agli obblighi di responsabilità di coniuge e di genitore.
Stessa pena per chi dilapida il patrimonio familiare o fa mancare al coniuge o ai figli i mezzi di sussistenza. La legge prevede l’obbligo del mantenimento dei figli indipendentemente dall’età, come è stato stabilito in numerose sentenze di divorzio.
Il decreto-legge numero 21 del 2018, specifica alcune norme in materia di assistenza familiare in caso di scioglimento del matrimonio. Tutte le pene previste dall’articolo 570 saranno applicate, in particolare riguardo, all’assegno di mantenimento e a tutti i doveri di tipo economico nei confronti dell’ex coniuge e dei figli. L’estensione del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare anche alle coppie divorziate o separate farà finalmente chiarezza sui complessi aspetti economici che comporta lo scioglimento di un matrimonio, specialmente nel caso in cui vi siano dei figli.
Ma sembra che i tempi siano cambiati, così come sono cambiati i criteri per valutare quale sia un comportamento moralmente accettabile o meno, tuttavia nell’analisi del punto di vista economico non c’è possibilità di sbagliarsi: che si sia sposati o meno, si può incorrere in un’ipotesi di reato, se si fanno mancare i mezzi di sussistenza ai figli o al coniuge che non siano in grado di essere economicamente indipendenti.
La legge non si ferma ai figli, ma anche agli ascendenti e ai discendenti, quindi nonni e nipoti, e non pone limiti di età: se non sono in grado di badare a sé stessi ex coniuge, figli e nipoti vanno mantenuti.
Ma come accennato, la strada è alquanto tortuosa.
Con la sentenza n. 11504/2017, la Corte di Cassazione ha abbandonato il parametro del “tenore di vita” nella determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento, sostenendo che il coniuge richiedente il beneficio non possa più essere considerato parte di un rapporto matrimoniale, familiare, ormai estinto per mezzo dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili, ma piuttosto come “persona singola”.
Pertanto, il giudice del divorzio doveva verificare in primis l’indipendenza o autosufficienza economica dell’ex coniuge che richiede il mantenimento e, quindi, il possesso di redditi, di cespiti patrimoniali, capacità e effettive possibilità di lavoro; ove tali presupposti sussistano, non potrà riconoscersi il godimento di un assegno, a cui farà seguito la quantificazione di tale mantenimento da parte dell’obbligato, che dovrà effettuarsi esclusivamente per rispondere ad una esigenza di sostentamento indispensabile alla sopravvivenza e non già, o per lo meno non più, a mantenere il tenore di vita, e quindi la disponibilità economica, goduta in costanza di matrimonio.
Prima del 10 maggio 2017, al momento della separazione dei coniugi il giudice valutava chi dei due avesse un reddito più basso e, per compensare il divario con quello dell’altro coniuge, ordinava al coniuge economicamente più forte di versare un assegno di mantenimento, in modo da equilibrare le due posizioni, consentendo ad entrambi di mantenere lo stesso tenore di vita che avevano durante il matrimonio.
La particolarità della sentenza della Corte di appello di Roma è di avere confrontato due situazioni nelle quali i due coniugi presentavano due redditi tra loro diversi, dove la moglie aveva uno stipendio più basso del marito. Siccome lei risultava titolare di immobili, è stata ritenuta lo stesso economicamente autosufficiente.
Analizziamo cosa accade alla luce della sentenza SS.UU. n. 18287/2018.
La Cassazione a Sezioni Unite chiarisce i termini sui criteri di riconoscimento e quantificazione dell’assegno di divorzio, modificando alcuni principi della sentenza Grilli n. 11504/2017.
Non tutti i divorzi sono uguali ed il giudice deve valutare ogni vicenda caso per caso. La durata, l’aver contribuito alla crescita sociale ed economica, sono fattori che entrano in gioco per la valutazione dell’assegno di mantenimento.
Tuttavia l’assegno compensativo e perequativo non potrà poggiarsi sul principio del tenore di vita, principio ormai superato dalla giurisprudenza. Il giudice valuterà caso per caso l’ammontare dell’assegno.
Con questa sentenza a Sezioni Unite che mitiga quella precedente del 10 maggio 2017 la Cassazione sancisce maggiore equità nei divorzi. Restano fermi i principi secondo cui in caso di matrimonio breve e di palese indipendenza economica dei coniugi non debba essere riconosciuto l’assegno di divorzio.
La Cassazione tutelerà, anche per motivi costituzionali, l’impegno dei coniugi e la loro dedizione, anche in caso di fine del loro matrimonio
L’assegno divorzile, nella comune conoscenza, consiste nell’obbligo di uno dei coniugi di versare periodicamente all’altro coniuge una somma di denaro quando quest’ultimo non ha i mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.
Partendo dal testo originario dell’art. 5, c. 6 della l. n. 898 del 1970:
– l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proposizione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. […]”
La Corte inizialmente, nelle cause a lei proposte, si era orientata, nei confronti di tale norma, a dare all’assegno di divorzio una natura mista, a metà tra i criteri attributivi e i criteri determinativi.
Infatti la Corte affermò che l’assegno avesse natura composita:
– “assistenziale in senso lato, con riferimento al criterio che fa leva sulle condizioni economiche dei coniugi; risarcitoria in senso ampio, con riguardo al criterio che concerne le ragioni della decisione; compensativa, per quanto attiene al criterio del contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge alla condizione della famiglia e alla formazione del patrimonio. il giudice, che pur deve applicare tali criteri nei confronti di entrambi i coniugi e nella loro necessaria coesistenza, ha ampio potere discrezionale, soprattutto in ordine alla quantificazione dell’assegno. ” (S.U. 1194 del 1974; conf. 1633 del 1975).
Al giudice veniva sì concesso ampio potere discrezionale, ma solo ed esclusivamente sull’ammontare dell’assegno; nessuna discrezione aveva sull’utilizzo dei criteri e non poteva considerare un criterio recessivo rispetto ad un altro per esempio.
In principio si affermò che data la cessazione del vincolo di parentela, l’assegno non potesse in nessun caso avere natura alimentare (Cass. 256 del 1975).
Alla cessazione del matrimonio, per la determinazione, venivano accertati fattori quali l’età, la salute, l’esclusivo svolgimento di attività domestiche all’interno del nucleo familiare, il contributo fornito al consolidamento del patrimonio familiare e dell’altro coniuge (Cass. 835 del 1975).
Quindi si diede all’assegno una funzione assistenziale, ma non solo; anche compensativa, in quanto si teneva conto della durata del rapporto ormai infranto, e risarcitoria, quando si doveva tener conto dei motivi della decisione.
Inizio comunque una critica su tali orientamenti giuridici, tranne nella discrezionalità rimessa ai giudici e sulle indagini comparative dei redditi e dei patrimoni dei coniugi fondato sul deposito di documenti fiscali, su poteri istruttori officiosi al giudice.
Nel 1990 poi con la sentenza n. 11490 le S.U. si è affermato che l’assegno ha carattere esclusivamente assistenziale, in quanto il presupposto per la concessione si rinveniva nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, quindi insufficienza degli stessi, dei redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità, con cui potesse mantenere un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. Non si doveva tener conto di uno stato di bisogna, ma di un apprezzabile deterioramento, dipendente dal divorzio, delle precedenti condizioni economiche.
Qui si ebbe il primo distacco dei criteri, si affermò che i criteri indicati nella prima parte della norma avessero esclusivamente funzione determinativa dell’assegno, da attribuirsi sulla base dell’esclusivo parametro dell’inadeguatezza dei mezzi.
A questo orientamento restato immutato per anni si contrappone la sentenza n. 11504 del 2017, che condivide la premessa sistematica relativa alla distinzione tra criterio attributivo e determinativo, ma individua come parametro dell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, la non autosufficienza economica dello stesso, e stabilisce che solo all’esito del positivo accertamento di tale presupposto possano essere esaminati i criteri determinativi.
Il principio di diritto cui giunge la Corte nella recentissima sentenza in oggetto, riporta ordine negli orientamenti giurisprudenziali, affermando che i criteri devono essere considerati univocamente. Il legislatore impone una prima indagine su uno squilibrio dei coniugi, attraverso documentazione fiscale e attraverso poteri istruttori officiosi, dalla quale può derivare senz’altro un primo profilo assistenziale dell’assegno, o dalla quale può emergere una situazione equilibrata.
Il parametro quindi sulla quale decidere sull’assegno non può basarsi solo su questo, dovendo necessariamente prendersi in considerazione anche altri elementi quali il contributo del coniuge richiedente nella gestione familiare, nella creazione del patrimonio coniugale, ma anche personale. Questo contributo nasce dalle decisioni comuni, dalla gestione del rapporto coniugale, dall’assolvimento dei doveri indicati nell’art. 143 c.c.
Quindi abbiamo una decisione che non si basa solo su una funzione assistenziale, ma considera anche quanto dal coniuge richiedente è stato sacrificato, o meglio investito, nella gestione e nella vita familiare, indi considerando in egual modo una funzione compensativa e perequativa.
Con la sentenza del luglio del 2018, i giudici scrivono:
– “Si assume come punto di partenza il profilo assistenziale, valorizzando l’elemento testuale dell’adeguatezza dei mezzi e della capacità (incapacità) di procurarseli, questo criterio deve essere calato nel “contesto sociale” del richiedente, un contesto composito formato da condizioni strettamente individuali e da situazioni che sono conseguenza della relazione coniugale, specie se di lunga durata e specie se caratterizzata da uno squilibrio nella realizzazione personale e professionale fuori del nucleo familiare. Lo scioglimento del vincolo incide sullo status, ma non cancella tutti gli effetti e le conseguenze delle scelte e delle modalità di realizzazione della vita familiare. Il profilo assistenziale deve, pertanto, essere contestualizzato con riferimento alla situazione effettiva nella quale si inserisce la fase di vita post matrimoniale, in chiave perequativa-compensativa” (pag. 35 S. U. sentenza n. 18287 del 11/07/2018).
A tutto ciò potrebbe aggiungersi un ulteriore elemento di novità ed evoluzione del diritto di famiglia.
Alla Camera infatti è stato da poco presentato un nuovo disegno di legge, firmato dal senatore Simone Pillon, che vuole modificare il rapporto fra genitori separati e prole. Tante le novità presenti nelle “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”, fra cui la fine dell’assegno di mantenimento, la doppia residenza per i figli e stesso tempo da trascorrere con la prole.
La norma verrà discussa a settembre, ma in queste ore sono stati diffusi i primi dettagli. “È prevista la sostanziale soppressione dell’assegno di mantenimento – ha spiegato Pillon al Messaggero -. Non ci sarà più l’obbligo di versare soldi all’altro genitore, perché il mantenimento dei figli sarà un onere di entrambi che provvederanno in maniera diretta, come accade nelle coppie conviventi, salvo diverso accordo”.
Solamente nei casi limite sarà il giudice a stabilire il mantenimento diretto: “Sulla base del costo medio dei beni e servizi per i figli, individuato su base locale in ragione del costo medio della vita come calcolato dall’Istat”.
Non solo: per la prole ci sarà la possibilità della doppia residenza. “Salvo diverso accordo tra le parti e salvo comprovato e motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica dei figli – si legge nell’anticipazione della norma – deve essere garantita alla prole la permanenza di non meno di 12 giorni al mese, compresi i pernottamenti, presso il padre e presso la madre”. Anche in questi casi se ci saranno difficoltò verranno definiti “adeguati meccanismi di recupero durante i periodi di vacanza”.
Il nuovo disegno di legge stabilisce anche l’abolizione del principio dell’assegnazione della casa. La responsabilità verso la prole verrà condivisa fra i genitori, che avranno un affidamento congiunto anche per quanto riguarda il tempo trascorso con i figli. “Il minore – spiega la norma – ha il diritto di trascorrere con ciascuno dei genitori tempi paritetici ed equipollenti, salvo i casi di impossibilità materiale”.
Quindi, tempi paritetici passati con i figli, soppressione dell’assegno di mantenimento e dell’assegnazione della casa, doppia residenza per i figli e non solo, sono le novità che potrebbero diventare realtà dopo il mese di settembre.
In ogni caso, alla prole:
– “dovrà essere garantita la permanenza di non meno di dodici giorni al mese, compresi i pernottamenti, presso il padre e presso la madre, salvo comprovato e motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica del figlio».
In caso di difficoltà a mantenere queste proporzioni, sono previsti adeguati meccanismi di recupero durante i periodi di vacanza.
Nel principio dell’assegnazione della casa , il giudice può stabilire che il minore rimanga a vivere nella casa familiare e decidere quale dei due genitori debba vivere con lui, pagando al proprietario dell’immobile un indennizzo pari al canone di locazione computato sulla base dei correnti prezzi di mercato.
Ma è nell’assegno di mantenimento, la vera rivoluzione, completamente in contrasto con le sentenze della Cassazione.
– “Non ci sarà più obbligo di versare soldi all’altro genitore, il mantenimento dei figli sarà un onere di entrambi che provvederanno in maniera diretta, come accade nelle coppie conviventi. In caso non ci sia accordo tra i genitori o sia solo parziale, il testo specifica che sarà il giudice a stabilire il piano genitoriale sia per tempi e modalità della presenza presso ogni genitore, sia per il mantenimento diretto sulla base del costo medio dei beni e servizi per i figli, individuato su base locale in ragione del costo medio della vita come calcolato dall’Istat”.
Questo è quanto si capisce dalle dichiarazioni degli interessati, recuperate sulle varie testate giornalistiche nazionali.
Le novità preannunciate dal ddl, ovviamente, saranno oggetto di discussione parlamentare a partire da settembre. Le misure, però, per il momento incontrano il favore di alcuni esperti, come l’avvocato Marco Meliti, presidente nazionale Dpf-Associazione Italiana di Diritto e Psicologia della Famiglia: «Ci sono molti aspetti critici, che andranno valutati con la massima attenzione, ma le intenzioni sono ottime, perché abbiamo delle leggi che sono troppo sbilanciate a favore delle mamme».
Certo, che chi ha a che fare con il diritto di famiglia non ha vita facile.
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