Giustizia

La morte di Regeni ci interpella. Il reato di tortura che qui non è legge

8 Febbraio 2016

La morte di Giulio Regeni, ha mosso molte corde: quella della commozione, quella delle emozione, quella della condivisione, quella anche della compostezza.
Altre corde hanno suonato “storto”. Per esempio la questione dei rapporti tra la redazione de “il Manifesto” e la famiglia. Altre hanno richiamato le ambiguità o le posizioni incerte di politica estera dei governi italiani (degli ultimi sei anni).

Nessuno mi sembra, però ha sollevato una questione che ci riguarda e ci chiama in causa o almeno deve far riflettere noi qui: le condizioni e le circostanze in cui si è prodotta la morte di Giulio Regeni.

Giulio Regeni è morto per le percosse subite. Diciamolo con un a parola molto semplice: è morto per un reato  di tortura.
Ma questo fatto rimane sullo sfondo o almeno si propone come l’indicazione di un eccesso di violenza proprio di un regime politico fondato su una restrizione delle regole (“una roba che accade nel Terzo mondo”).
In breve il senso comune fa dire che quella morte è parte dello scenario di un sistema politico che sul piano delle regole e delle garanzie è alquanto discutibile. Insomma un regine autoritario, lascia margini ampi di violazione dei diritti umani, quando addirittura non li copre.
E tuttavia la questione a me sembra ancora non toccata.
La domanda che ci dovremmo porre mi sembra essere la seguente: com’è che è possibile torturare, senza che ci sia sanzione, o che sia possibile pensare che non si subirà sanzione?
Questa domanda ci riguarda, parecchio e da vicino. Perché se in Eigitto non c’è il reato tortura, nemmeno noi siamo “in regola”. E infatti, anche da noi, qui, in Italia, manca ancora oggi il reato di tortura.
L’Italia ratifica nel 1998 la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura del 1984. La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, ratificata dal nostro paese nel 1988, prevede all’articolo 5 che ogni stato si adoperi per perseguire penalmente quegli atti di tortura delineati all’art. 1 della Convenzione stessa.
Tuttavia quel reato stenta a entrare nel codice penale italiano.
Nell’aprile del 2015 la Corte europea dei diritti umani stabilisce che il blitz della polizia alla scuola Diaz (21 luglio 2001), “deve essere qualificato come tortura”. E perciò condanna l’Italia per l’inadeguatezza della nostra legislazione che a trent’anni dalla sottoscrizione della già citata Convenzione ONU non ha ancora una legge apposita sulla tortura all’interno del codice penale.
Così in tutta fretta, 10 mesi fa, la Camera dei deputati, nella seduta del 9 aprile 2015 approva con modifiche la proposta di legge C. 2168, già approvata dal Senato, che introduce nel codice penale il reato di tortura, espressamente vietata in alcuni atti internazionali.
La proposta torna al Senato per una ratifica. Ma non prosegue. E, infatti, lì ancora si trova, in “lista di attesa”.

Una “storia italiana”, insomma.
Forse, superata l’emozione, la commozione, e l’indignazione , sarebbe il caso di premere perché la tortura sia riconosciuta come reato. Anche sull’emozione di questo momento. Comunque senza dimenticare. Prima che “con sorpresa” ci troviamo a tentare di dipanare un altro “caso Diaz” (tanto per rimanere a casa nostra).

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