Giustizia

La manipolazione delle dichiarazioni della dott.ssa Ferraro

13 Febbraio 2023

Sembra essere la moda più diffusa in questi ultimi anni, quella di citare persone morte mettendogli, letteralmente, in bocca parole e/o frasi che non hanno mai detto.

È successo, di nuovo, ieri sera durante la puntata di “Non è l’Arena” condotta da Massimo Giletti. E, ancora una volta, gli orfani della trattativa hanno inquinato i pozzi. L’hanno fatto citando la dottoressa Liliana Ferraro, morta il 24 febbraio dello scorso anno. Le sue parole sono cristallizzate sia durante il procedimento “Borsellino IV”, convocata come testimone l’1 aprile 2014 e nella sua audizione presso la Commissione Nazionale Antimafia del 16 febbraio 2011 che si riporta di seguito nella parte riguardante l’incontro tra lei e il dottor Paolo Borsellino all’aeroporto di Roma il 28 giugno 1992, incontro oggetto di manipolazione durante la trasmissione.

 

«Gli assicurai che anch’io avrei parlato con il dottor Borsellino al più presto. Cosa che feci una domenica che poi, dall’agenda del dottor Borsellino, è risultata essere la domenica 28 giugno 1992, quando lo incontrai su sua richiesta all’aeroporto di Roma, proveniente da Bari, in compagnia della moglie Agnese che dopo la morte di Giovanni tentava di essergli sempre accanto. Grazie alla polizia e alle autorità aeroportuali ci fu data la possibilità di stare da soli in una saletta. Parlammo di molte cose e io riferii a Paolo anche il contenuto della visita del capitano De Donno. Paolo non diede molta importanza a questo fatto e mi disse «ci penso io» o «me ne occupo io».

Nel tempo che passammo insieme all’aeroporto Paolo mi spiegò prima di tutto la ragione per la quale mi aveva chiesto d’incontrarlo e di andare con lui a Palermo: voleva parlarmi del caso Mutolo, che so essere già a conoscenza di questa Commissione perché ́ ne ha riferito il dottor Pierluigi Vigna. Gaspare Mutolo, detenuto per fatti di mafia, mesi prima aveva chiesto di parlare con il dottor Giovanni Falcone il quale aveva ritenuto di sentirlo ma si era fatto accompagnare dal dottor Sinisi, svolgendo egli funzioni amministrative. Il Mutolo dichiarò di essere disponibile a collaborare con la giustizia ma chiedeva di farlo solo con il dottor Falcone, come era accaduto per Buscetta. Il dottor Falcone gli rispose che questo non era possibile ma aggiunse che avrebbe avvertito il Ministro della giustizia, il Ministro dell’interno e il capo della Polizia sollecitando questi ad affidare l’incarico a Gianni De Gennaro, mentre per la parte giudiziaria gli disse che lo avrebbe affidato completamente al dottor Borsellino. Questa è la ragione per la quale Mutolo, come già detto dal dottor Vigna, si rifiutava di parlare con altri o in presenza di altri.

Il procuratore Giammanco, come ha già riferito il dottor Vigna alla Commissione, continuava tuttavia a respingere le richieste di Borsellino. Paolo mi spiegò che probabilmente se la stessa richiesta l’avessi formulata io al procuratore, considerato il mio ruolo al Ministero e la possibilità che avevo di informare non solo il ministro Martelli ma anche il Ministro dell’interno, forse Giammanco si sarebbe convinto. Decisi di chiamare immediatamente Palermo da una cabina telefonica nell’atrio dell’aeroporto, in quanto i cellulari non funzionavano, per avvertire il procuratore Giammanco che il giorno dopo avevo assolutamente bisogno di parlare con lui; cosa che feci l’indomani mattina trovando nel procuratore molta resistenza. Al termine di una lunga e vivace conversazione il procuratore passò a una risposta più possibilista, ma da adottare qualche giorno dopo perché ́ aveva in corso, mi disse, una sorta di redistribuzione del lavoro tra i magistrati della procura.

Fu in occasione della telefonata dalla cabina dell’aeroporto che incontrammo, Paolo e io, alcune persone e l’allora Ministro della difesa Andò. Ritornati nella saletta, il dottor Borsellino mi fece altre domande sulle attività di Giovanni nell’ultimo periodo e volle che gli raccontassi ciò che sapevo sulla cosiddetta indagine sugli appalti. Era un rapporto contenente spunti di attività investigativa in relazione a una rete di appalti in Sicilia che aveva diramazioni con grandi aziende anche sul continente e che, a giudizio del ROS che l’aveva redatto, se adeguatamente sviluppata avrebbe potuto portare all’accertamento delle attività economiche svolte da cosa nostra in Sicilia e nel resto del Paese.

Questo rapporto era arrivato al ministro Martelli in plico sigillato inviato dal procuratore della Repubblica di Palermo. Il Ministro, come era sua abitudine per le questioni che riguardavano le attività degli uffici giudiziari in materia penale, lo aveva inviato immediatamente al dottor Falcone il quale era appena partito per Palermo per il fine settimana. Io lo avvertii dell’arrivo del plico ed egli mi pregò di cominciare a leggerlo per capire quale provvedimento la procura della Repubblica di Palermo stesse chiedendo al Ministero. Poco tempo dopo – non più di due ore – il dottor Falcone mi richiamò e mi disse di risigillare immediatamente i faldoni pervenuti da Palermo e di predisporre una bozza di lettera a firma del Ministro per accompagnare la restituzione degli atti alla procura. Così facemmo.

Dopo quella domenica non ho più incontrato di persona il dottor Borsellino, pur avendo con lui dei rapporti telefonici pressoché ́ quotidiani. L’ho sentito l’ultima volta il sabato 18 luglio, in mattinata, allorché ́ mi disse che nella settimana successiva avrebbe trovato comunque il tempo di venirmi a parlare, magari raggiungendomi a casa.

Come ho riferito all’autorità giudiziaria a Palermo, il capitano De Donno non mi parlò affatto di “trattativa”, né io ebbi percezione alcuna che si stesse riferendo a qualcosa di diverso dal comune tentativo di convincere un appartenente all’organizzazione a collaborare, così come previsto dalle norme sui collaboratori di giustizia. D’altra parte, a quanto mi è parso di capire dalle notizie riportate dai giornali, anche il colonnello Mori raccontava ad altri rappresentanti delle istituzioni i tentativi che avevano avviato per indurre Vito Ciancimino a collaborare. L’avvocatessa Contri, all’epoca segretario generale di Palazzo Chigi, riferisce di aver appreso di queste iniziative sia il 22 luglio 1992, prima dei funerali di Paolo Borsellino, che il 28 dicembre dello stesso anno, quando Ciancimino era ormai detenuto».

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