Giustizia
La difesa ha chiesto al massimo dieci anni, l’accusa vuole l’ergastolo
Domani, mercoledì 2 maggio, nel processo per i crimini del gruppo terroristico auto battezzatosi Clandestinità nazionalsocialista, se non verranno presentate nuove istanze dagli altri imputati, i difensori del pentito Carsten Schultze dovrebbero esporre la loro comparsa conclusionale. I legali di fiducia dell’imputata principale, Beate Zschäpe, ritenuta l’unica sopravvissuta del gruppo, hanno potuto già farlo la settimana scorsa, anche se solo dopo che diverse udienze, erano state cancellate, o perché il collegio difensivo non era completo. La Procura Generale della Repubblica aveva chiesto per l’imputata la condanna a 14 ergastoli e la dichiarazione di pericolosità che autorizzerebbe di prolungarne ancora la detenzione. I suoi due avvocati difensori di fiducia hanno chiesto ai giudici della sesta sezione della Corte d’Appello di Monaco di Baviera giovedì 26 aprile una condanna al massimo a dieci anni. L’imputata ne ha già scontati più di sei di carcere preventivo.
Per la sussistenza di un gruppo terroristico la legge tedesca richiede la partecipazione, con una struttura con fini definiti e divisone di ruoli, di almeno tre persone. Per la difesa tutti gli omicidi e gli attentati sono stati invece commessi solo dai due deceduti Uwe Mundlos ed Uwe Böhnhardt e l’imputata non ha mai partecipato alla creazione di alcuna organizzazione terroristica. I difensori hanno ammesso solo quanto assolutamente innegabile: Beate Zschäpe ha vissuto in clandestinità per sottrarsi all’arresto dall’ottobre 1998 al novembre 2011; ha procurato documenti falsi e mezzi di comunicazione e coperto le assenze dei due compagni in incognito mentendo ai vicini; ha pure approfittato dei proventi di 15 rapine per vivere; ha partecipato alla creazione del gioco Pogromly, una sorte di Monopoly a tema lo sterminio degli ebrei nei lager, ma solo per guadagnare e non perché ne condividesse lo spirito antisemita; infine e solo per eseguire una promessa ai compagni deceduti; ha appiccato l’incendio dell’ultimo appartamento dove vivevano insieme provocando l’esplosione di mezzo stabile; quindi spedito 16 buste con il dvd di rivendicazione di omicidi ed attentati, senza però conoscerne il contenuto.
Si usa dire che l’attacco sia la miglior difesa. L’avvocato Hermann Borchert ha dimostrato di esserne convinto non mancando nei toni polemici contro la Procuratrice Annette Greger (che aveva principalmente delineato le conclusioni dell’accusa su Beate Zschäpe nell’ottobre dell’anno scorso) e la stampa che fin dall’inizio del processo si sarebbe dimostrata avversa alla sua cliente con appellativi come “sposa nazista” (Nazi Braut) sulla Bild. La procuratrice incassa gli affondo del difensore sorridendo rilassata. Conscia che l’avvocato Borchert in realtà ha seguito di persona solo una ventina di udienze e già questo è un handicap per convincere i giudici di saperne di più. Senz’altro l’imputata ha un carattere forte, dice l’avvocato Hermann Borchert, <non lo ha mai messo in discussione> altrimenti non avrebbe potuto resistere ad un processo in cui tutti l’hanno accusata fin dall’inizio, ma non è la macchinatrice diabolica come la si vorrebbe dipingere. Il carattere d’altronde lo ha ben dimostrato, ha cercato di sbarazzarsi dei suoi primi tre difensori d’ufficio arrivando a denunciarli e da oltre due anni non rivolge loro parola pur sedendogli quasi gomito a gomito.
Dopo il 4 novembre 2011, quando per radio apprese che Uwe Mundlos ed Uwe Böhnhardt erano morti ad Eisenach, Beate Zschäpe avrebbe potuto decidere di restare nell’ambiente di estrema destra, sottolinea il legale, invece si è consegnata per farsi carico delle proprie responsabilità. Del fatto che non si sappia chi abbia visto per quattro giorni prima di costituirsi non fa menzione. La stessa testimonianza di un giovane coinquilino negli anni dell’anonimato Patrick K., che ha affermato che l’imputata lo avrebbe ammonito di non cadere nell’alveo dell’estrema destra, letta dall’accusa come indicazione che Beate Zschäpe dovesse allontanare eventuali sospetti, deporrebbe per la difesa invece del lento mutare di indirizzo dell’imputata. La lettura si scontra però con la constatazione che Beate Zschäpe restò ancora a lungo latitante con Uwe Mundlos ed Uwe Böhnhardt, che facevano morti in giro per la Germania. In sei anni l’imputata non ha mai avuto contatti con le compagnie anteriori, rimarca ancora l’avvocato Borchert. C’è stata una lettera dal carcere all’estremista Robin Schliemann, la difesa non può tacerlo, ma essa è l’unico episodio, minimizza. Beate Zschäpe non ha accettato altri contatti, ha rifiutato persino di corrispondere con Anders Breivik. Finché non è emerso non ha però disdegnato i contributi che le mandava in carcere a Monaco tale Enrico Kiesewetter, un fan con simpatie destrorse. Beate Zschäpe aveva ventidue anni quando scese in clandestinità e non poteva allora sapere che sarebbe durata così a lungo la latitanza, indica tuttavia ancora l’avvocato Mathias Grasel, oggi ne ha 43 ed è un’altra persona che <ha imparato dai suoi errori>.
Il perito psichiatrico forense Henning Saβ, che non le ha mai parlato perché lei si è rifiutata, ha concluso in seguito all’analisi della sua biografia e soprattutto del suo comportamento in aula, che l’imputata è manipolativa e le debbano essere applicate le misure di sicurezza con cui i giudici possono di fatto procrastinare la detenzione oltre l’ergastolo. Un’arbitrarietà per i difensori: Beate Zschäpe ha risposto a tutte le domande dei giudici. Anche se non ha voluto sottoporsi a centinaia di domande dell’accusa e delle parti civili; quelle rilevanti le ha poste la Corte stessa. Beate Zschäpe ha deciso di dare solo risposte scritte dopo 248 udienze e lo ha fatto solo per bocca dei suoi avvocati. L’avvocato Borchert si è preso il merito di avere redatto le risposte perché l’accusata sapeva che <ogni sua parola sarebbe stato soppesata sul bilancino per l’oro> e non si sentiva altrimenti in grado di affrontare le insidie di un interrogatorio; sono solo le mie doti letterarie, rivendica, che l’hanno rivelata agli occhi del professor Henning Saβ. Non sono la forma ed il tono con cui sono state rese le risposte che contano, quanto i contenuti e la loro valutazione spetta ai giudici e non al perito. L’imputata, sottolineano i legali della difesa, ha chiesto scusa ai superstiti e si è dichiarata moralmente responsabile per non avere capito chi fossero i suoi compagni di fuga e saputo fermarne la furia omicida. Ma la responsabilità morale è cosa diversa da quella giuridica. <Lo Stato deve poter tollerare che dei crimini restino impuniti dopo la morte dei loro autori e non esercitare vendetta> sulla loro assistita.
Beate Zschäpe deve essere creduta, affermano i difensori, e suggeriscono quanti mariti hanno una doppia vita senza che le mogli lo sappiano, anche l’imputata poteva non sapere nulla delle attività dei due compagni di fuga. Aveva affittato il garage a Jena dove fabbricavano delle bombe solo per riconquistare Uwe Böhnhardt; non forniva loro una parvenza di vita domestica in incognito perché ne condivideva i fini, ma solo e semplicemente perché si era decisa a sottrarsi con loro all’arresto. E se pure era andata ad Hannover dal coimputato Holger Gerlach a ritirare un passaporto falso per Uwe Böhnhardt, era solo perché questi era malato. Aveva detto sì alla clandestinità non al terrorismo.
L’avvocato Borchert ripercorrendo le risultanze probatorie ha accusato gli inquirenti di averle lette in modo selettivo per farle convergere al risultato di colpevolezza senza ammettere interpretazioni diverse od addirittura omettendo quanto non vi fosse compatibile. Beate Zschäpe sarebbe stata in gioventù una militante di estrema destra incline alla violenza, ma ella sarebbe stata per contro avversa a qualsiasi arma. La collezione di quelle esposta alla parete di casa sua in Schomerusstraße a Jena e la bandiera da guerra del Reich tedesco erano in realtà solo di Uwe Böhnhardt, anche quando fu trovata in possesso di una pistola ad aria compressa era del ragazzo e lei alla fine della procedura non la rivolle indietro. La testimonianza di una 33enne che gravitava nei gruppi di estrema destra a Jena che aveva visto a casa dell’imputata una pistola ad aria compressa, è liquidata dal difensore dicendo che la teste non conosceva in realtà bene l’imputata e chissà se l’arma era autentica. L’avvocato omette di menzionare che la testimone ha dichiarato che Beate Zschäpe girava sempre con la pistola ad aria compressa e la chiamava “Wally”.
L’imputata che sarebbe sempre stata contraria alla violenza, aveva inviato lettere minatorie con della polvere nera. Ma erano solo minacce non in grado di ledere alcuno, ha indicato ancora l’avvocato Borchert. In realtà nessuna delle venti armi di cui disponevano i defunti Böhnhardt e Mundlos reca una sua impronta o tracce del suo DNA. Beate Zschäpe non era neppure presente quando il co-imputato Carsten Schultze consegnò la pistola Ceska 83 con cui furono commessi nove delitti. Neanche lo sarebbe stata quando un altro imputato, Holger Gerlach, portò loro a casa un’altra arma. Quest’ultimo aveva dichiarato alla polizia che anche lei potesse aver visto cosa portava, ma non lo ha ripetuto in aula e poi per l’avvocato Borchert, Holger Gerlach non avrebbe dato una testimonianza consistente, cambiando più volte le versioni. A ribadire che Beate Zschäpe non ne volesse sapere di armi ci sarebbe anche che non ne prese nessuna quando lasciò definitivamente l’appartamento. Non ci sono d’altronde prove per poter affermare che in effetti sia stato frutto di un calcolo a fronte del venire meno del gruppo. L’avvocato non menziona tuttavia che nella cantina dell’appartamento fu rinvenuta una lastra di legno con dei fori di proiettili che lascia supporre che vi si svolgessero esercitazioni di tiro. Ma Beate Zschäpe era contraria alle armi e quando trovava delle pistole in giro le metteva via. Lo ha dichiarato ella stessa.
Lungi dall’essere membro di un gruppo terroristico, Beate Zschäpe aveva procurato diverse schede SIM per cellulari solo perché si era determinata a vivere in clandestinità con Böhnhardt e Mundlos. In occasione di ben 27 reati di cui all’atto di accusa non è emersa nessuna comunicazione con quei numeri di telefono, per poter dire che siano stati funzionali all’attività terroristica del gruppo. La difesa non può ignorare che c’è stato un contatto tra una cabina di Zwickau ed un cellulare a Monaco proprio quando veniva freddato il cittadino greco Theodorus Boulgarides, ma né i contenuti né gli interlocutori sono verificabili e quindi, per l’avvocato Borchert, non si può dire -come invece ha sostenuto l’accusa- che Beate Zschäpe volesse sincerarsi di come erano andate le cose e quando sarebbero rientrati i due compagni.
Lei ha affermato di non aver mai saputo a priori di alcun omicidio e di non averli mai approvati. Gli uomini non le dicevano nulla dei loro spostamenti. Anzi dopo che nel 1999 ella aveva dato a Carsten Schultze una procura per l’avvocato di estrema destra, ormai egli stesso deceduto, Hans Günter Eisenecker perché cercasse di raggiungere un accordo con la procura di Gera e costituirsi, non si fidavano affatto ciecamente di lei. L’avvocato non menziona però che non lo fece affatto alle spalle di Böhnhardt e Mundlos, bensì col loro consenso. Dopo essere venuta a sapere dell’uccisione di Enver Şimşek avrebbe potuto in realtà prevedere che con le armi avrebbero potuto uccidere di nuovo. Ha dichiarato che dopo che le avevano rivelato che avevano commesso un omicidio lei ne era sconvolta. Però andarono poi comunque in vacanza insieme, nelle foto sorridenti e rilassati. Ebbene dice Borchert, erano passate 6 settimane e non poco tempo come ha inferito l’accusa. Chi poi non è rilassato in vacanza? Non erano i due compagni di fuga ad avere bisogno di lei, quanto il contrario. Per questo visse con loro 13 anni in latitanza. Non se ne andò neppure dopo che Uwe Böhnhardt, secondo quanto ha affermato, l’avrebbe percossa e minacciata con un coltello.
Così come non ci sarebbe stato un trio terroristico, conseguentemente anche il teorema accusatorio che Beate Zschäpe fosse la cassiera del gruppo e la guardia del covo, per i due difensori è campato in aria. Böhnhardt e Mundlos avevano 40 mila euro nel camper dove morirono ad Eisenach, quando lei si consegnò invece aveva poco più di 20 euro spiccioli. I legali non ipotizzano che forse ci fosse un motivo specifico concordato perché Böhnhardt e Mundlos avessero la somma con sé; né che lei magari ha portato del denaro a qualcuno nei 4 giorni che ha vagato prima di costituirsi. Gli avvocati ricostruiscono invece che gli uomini non avevano bisogno di chiedere alla loro assistita alcunché. Essi sapevano ben più di lei imporsi e così nonostante il suo dichiarato volere contrario diedero 10 mila marchi in custodia ad Holger Gerlach che li dilapidò, od ancora si comprarono una barca a motore. Mundlos ha speso decine di migliaia di euro in computer e software, mentre Böhnhardt pagava tutti gli autonoleggi di tasca propria. Ella non aveva neanche da dire nelle decisioni sui contratti di affitto, hanno indicato. Tantomeno Beate Zschäpe era la guardia del covo che dirigeva da lontano le operazioni, affermano i difensori. Nella Frühlingsstrasse di Zwickau, l’ultimo indirizzo, Mundlos aveva montato telecamere nei vasi da fiori e poteva vedere l’appartamento senza bisogno che ci stessero altri. Che Beate Zschäpe tenesse il borsellino nelle vacanze era un fattore del tutto secondario.
L’imputata non era neppure l’archivista del gruppo, come ha sostenuto l’accusa. I difensori controvertono le prove: non è rilevante che siano state trovate un paio di sue impronte nella collezione di ritagli di quotidiani in cui si trattavano omicidi ed attentati del gruppo; al contrario che non ne è stata trovata nessuna di Böhnhardt e Mundlos che pure devono avere maneggiato i quotidiani dove si illustrava il loro operato.
Neppure plausibile la tesi accusatoria, afferma la difesa, che Beate Zschäpe abbia partecipato alla creazione della video rivendicazione. Per l’avvocato Borchert fu tutta solo frutto di Mundlos che era il computer freak del gruppo o tutt’al più di Böhnhardt. Uwe Mundlos si sarebbe fatto una lista di stringhe per ricordare i tagli per sé, o come istruzioni per il complice. Beate Zschäpe aveva fatto una scommessa con Uwe Böhnhardt, chi non fosse dimagrito entro la scadenza avrebbe dovuto effettuare 200 tagli di clips. Per l’accusa si intendevano spezzoni dei cartoni animati della Pantera Rosa usati nella brutale video-rivendicazione. Per la difesa invece indefettibilmente solo pubblicità da serie televisive; nell’ultimo appartamento fu trovata tutta una serie di telefilm del Dr. House senza pubblicità, oltre 400 tagli erano stati necessari. E poi, apostrofa la pubblica accusa l’avvocato Borchert, di scommesse tra Zschäpe e Böhnhardt ce ne furono tante altre perché non le menziona. Però non lo fa nemmeno lui.
Beate Zschäpe non avrebbe mai neppure preso parte ad alcuna operazione di individuazione degli obiettivi da colpire, che ci fossero carte ed elenchi nell’appartamento in misura a dir poco copiosa, parte in un pc nella sua stanza, per i difensori era inconferente. I pc si spostano e lei non sapeva nulla di quello che facevano gli uomini. Non fosse che a Berlino è stata vista e riconosciuta da un poliziotto fuori dalla sinagoga di Rykestrasse con uno di loro. Per l’accusa fu la molla che fece scattare la decisione che lei, più appariscente, non partecipasse più alle perlustrazioni. Per i difensori un nonsense, l’imputata non ha negato di essere stata a Berlino -conseguente d’altronde con l’ammettere sempre l’inconfutabile- ma non era una perlustrazione, non ci sono neppure stati attacchi ad istituzioni ebraiche. Ne erano individuate a decine in un elenco di obiettivi; per la accusa non ne fu colpita alcuna solo perché il gruppo si convinse che erano obiettivi troppo sorvegliati. D’altronde anche il fatto che Beate Zschäpe abbia partecipato alla creazione del gioco Pogromly, per il duo di legali come già indicato in apertura, era per necessità non per antisemitismo.
Beate Zschäpe era d’accordo che i due uomini facessero delle rapine per garantirsi di che vivere, e questo la fa complice perché prima della prima rapina ha convenuto che fossero loro ad agire e anche se lei non ha materialmente partecipato alla pianificazione di alcun reato, comunque li ha incoraggiati ad agire e poi ha condiviso il bottino. Ma lei era la più parca nelle sue esigenze. Il legale Mathias Grasel sussume unicamente che la sua assistita potrà dirsi colpevole di correo per 12 rapine e 3 estorsioni armate, ma non per il reato di costituzione di banda armata che si è prescritto e neanche per gli episodi violenti in cui Uwe Böhnhardt ha sparato all’indirizzo di un ragazzo che aveva azzardato un inseguimento e quello in cui ha esploso un colpo nello stomaco di un impiegato di banca.
Beate Zschäpe deve anche dirsi responsabile, ammette la difesa, di incendio doloso e di aver provocato un’esplosione con gravi conseguenze per l’allora anziana vicina Charlotte E. 89 anni che così perse la casa. Ma lo fece solo perché la sua era una personalità dipendente da Uwe Böhnhardt al quale aveva promesso che se qualcosa andava storto avrebbe fatto terra bruciata di tutto. Non sapeva in realtà, dice Mathias Grasel, anche se avrebbe potuto domandarglielo prima, che ci sarebbe stata una reazione esplosiva. A detta dei periti però o Beate Zschäpe sapeva benissimo cosa faceva, o ha avuto una fortuna sfacciata a non bruciare ella stessa perché i fumi della benzina che ha versato per appiccare le fiamme avevano saturato l’aria. Per il collega Borchert questo sarebbe il reato punibile più severamente, con 6 anni. Per tutti gli altri ammette solo una pena massima di 3 anni ciascuno ed arriva così a richiedere complessivamente non oltre 10 anni.
Per contro entrambi i difensori rimarcano a più riprese che Beate Zschäpe avrebbe fatto di tutto per assicurarsi prima dell’incendio che gli operai che stavano rinnovando degli appartamenti nel sottotetto non ci fossero ed anche che l’anziana vicina non fosse a casa. Anzi anziché scappare mollò la gabbietta coi suoi gatti per terra ad una passante dicendo che doveva precipitarsi a salvare la nonna nella casa già in fiamme ed ad un’altra di chiamare i pompieri. Un atteggiamento che esclude che volesse uccidere e quindi non può venirgli contestato il tentato omicidio come ha fatto la procura. La difesa sottace che con l’esplosione della casa poteva morire anche chi fosse semplicemente passato di fronte per strada.
Beate Zschäpe per i difensori d’altronde ha avuto un’infanzia con conflitti con la madre; è stata ella stessa violenta, e presa a percosse da Uwe Böhnhardt, ma lei non ha mai voluto uccidere nessuno. Non c’è neanche da pensare che omicidi di stranieri fossero da collegarsi a quello della poliziotta Michèle Kiesewetter e del tentato omicidio del collega di pattuglia come espressione dell’avversione per lo Stato. Per l’avvocato Borchert chi odia gli stranieri non ammazza anche i poliziotti. Peraltro, il gruppo deteneva sia le armi che le manette sottratte agli agenti, che un apio di calzoncini con le macchie di sangue della poliziotta, tenuti come trofeo. Per i difensori non è neppure provato che gli omicidi di cittadini con origini turche e greca fossero idonei a seminare panico nella comunità straniera come ha formulato l’accusa, perché nessuno straniero ha sicuramente lasciato per essi la Germania. Né poi potevano sapere cosa temere se gli assassinii non erano stati rivendicati. È stata però proprio questa miopia che fece sì che la polizia non riuscì ad interrompere la serie di omicidi e seguisse piste sbagliate. Fatti anziché parole era il motto del commando, all’interno della scena dell’estrema destra si sapeva di chi era la firma, le comunità colpite invece restando nell’incertezza, alimentata dalle accuse alla cieca degli inquirenti, caddero in preda a sospetti incrociati, isolando le famiglie delle vittime.
Beate Zschäpe per gli avvocati Borchert e Grasel ha chiesto scusa. In realtà per il perito professor Henning Saβ non ha mai effettivamente dimostrato pentimento. Non può dirsi tale una dichiarazione letta in tono basso ed in tutta fretta in una manciata di secondi il 29 settembre 2016, anche se fu l’unica che lei ha fatto di voce propria. Beate Zschäpe è una persona che ama colloquiare, lo si è visto negli ultimi due anni di processo da come ha sempre chiacchierato con l’avvocato Mathias Grasel, scherzato coi poliziotti. Lo si vede per come sta in piedi, dopo che i suoi difensori di fiducia hanno concluso la loro arringa, di cui lei avrà approvato prima ogni riga, a parlare con gli avocati Klemke e Nahrath. Se l’imputata avesse voluto dimostrare pentimento e chiedere scusa ai familiari delle vittime avrebbe potuto e saputo farlo ben in altro modo, quand’anche non in lacrime come ha fatto Carsten Schultze.
La Corte, non senza difficoltà per accontentare tutti i legali e pure le mogli degli imputati Wohlleben e Eminger che hanno fatto sapere vogliono essere presenti, ha definito la scaletta in cui dovrebbero essere presentate le altre comparse conclusionali. Così il prossimo mercoledì 2 maggio dovrebbero incominciare i difensori del pentito Carsten Schultze e poi via via gli altri per tutto il mese. Ultimi i tre difensori di ufficio originari di Beate Zschäpe non più voluti dall’imputata e che avrebbero anch’essi voluto rinunciare all’incarico, ma incaricati dal Senato e quindi vincolati ad esercitare il mandato. L’avvocato Wolfgang Stahl ha dichiarato fuori udienza che non ha trovato l’arringa difensiva del collega idonea a trasportare i giudici sulle sue posizioni. Troppo lunga. Attaccare direttamente la procuratrice è un fatto di gusto individuale. Che tra i due non corra simpatia per come gli è stata rubata la scena d’altronde non è mistero e l’avvocato Stahl non ha mancato di mostrare segni di disapprovazione in aula mentre il collega parlava ai giudici, facendo proprie le risultanze del perito prof Bauer. Questi era stato rigettato dalla Corte per la sua non imparzialità (aveva offerto ad un giornale un’intervista in esclusiva per riferire della sua esperienza a Monaco dove era in corso “un rogo alla strega”), ma è stato il solo cui l’imputata ha concesso di rispondere direttamente e l’ha dipinta una vittima in mano ai compagni violenti, dipendente da Uwe Böhnhardt. D’altronde in un processo indiziario come questo gli avvocati Borchert e Grasel probabilmente non avrebbero potuto fare altro: vedere separatamente gli indizi, sfocandone la visione d’insieme, per confutarli o quantomeno offrirne una lettura alternativa a quella dell’accusa; ammettere l’inconfutabile e per il resto rigettare tutte le responsabilità sui defunti Böhnhardt e Mundlos; fare apparire l’imputata come una vittima innocente messa in croce dai media. La sua assistita contesta le tesi della pubblica accusa e non può aver torto perché lei c’era, dev’essere quantomeno soppesato come dichiarazione contro dichiarazione.
Però i morti e le bombe ci sono stati, la video rivendicazione in cui il gruppo si è “definito una rete di camerati”, le risultanze delle commissioni di inchiesta parlamentari che hanno concluso che tale rete non solo sia esistita, ma dovesse consistere di ben più di soli tre membri come ipotizzato dalla Procura Generale. Per tredici anni Beate Zschäpe è vissuta in clandestinità e direttamente al Senato -se si eccettua una dichiarazione scritta dal suo avvocato e letta in fretta- non ha portato ad alcun chiarimento sul perché e come siano state scelte le vittime. Al suo pentimento formale non crede nessuno dei giornalisti che seguono costantemente il processo, anche se l’avvocato Borchert sottolinea che da sei anni in carcere non ha manifestato alcuna tendenza di estrema destra e non legge alcun testo che faccia sospettare una nuova deriva in tale direzione, anche se l’avvocato Grasel ha dichiarato che le persone cambiano e che l’imputata non è più sui vent’anni, ma ne ha 43.
Per convincere i giudici Beate Zschäpe dovrebbe approfittare del diritto che avrà alla fine come tutti gli accusati di dire qualcosa in prima persona, ma dovrebbe decidersi a dire molte cose. Dall’inizio del processo il 6 maggio 2013, anche se il suo difensore indica che ella ha preso posizione su tutti i capi d’accusa, Beate Zschäpe non ha mai gratificato neanche di un cenno la madre che le ha chiesto, cercando di parlarle da donna a donna, perché avessero ucciso il figlio; non un fiato al padre che prostrato strillava <cosa avete fatto al mio agnellino>; non una parola al figlio che ha descritto ai giudici che era ragazzino quando gli ferirono a morte il genitore ed in ospedale contò i buchi che aveva nel corpo; solo un segno di empatia quando fu proiettata una foto dei visi segnati dei due compagni morti. L’ultima parola in ogni caso spetterà ai giudici.
Martedì 24 aprile l’avvocato Daniel Sprafke era riuscito ad ottenere che si tornasse per breve tempo nella fase probatoria, quanto non era invece riuscito alla difesa del co-imputato Ralf Wohlleben. I giudici hanno accettato di ascoltare un teste presentato a discarico: l’istanza probatoria era stringente ed il teste già invitato dalla parte a comparire presente. Sarebbe stato più lungo e problematico rifiutarlo e dare il via ad una nuova girandola di istanze di ricusazione. Il testimone però non ha confermato in nulla le ipotesi a discarico per l’imputato André Eminger. L’avvocato Sprafke avrebbe voluto ottenere ancora tempo ed imporre una sospensione fino a dopo la mattinata del successivo 25 aprile, ma il Presidente della Corte non ha accettato ed è riuscito a fare partire finalmente il treno delle comparse conclusionali delle difese, dicendo che avrebbe potuto presentare nuove istanze dopo che gli avvocati di fiducia di Beate Zschäpe avessero presentato le loro conclusioni. Sprafke non è stato in aula giovedì 26 aprile e forse il piano dei magistrati salterà perché cercherà di ottenere l’escussione di nuovi testimoni. Se ci provasse l’avvocato Olaf Klemke ha suggerito di nuovo che il procedimento per André Eminger potrebbe essere stralciato; incredibilmente il Procuratore Generale Herbert Diemer si è dichiarato d’accordo. Significherebbe per Eminger riiniziare tutto con altri giudici e poi dopo proverebbero anche gli avvocati di Wohlleben ad ottenere lo stesso trattamento. Le parti civili hanno già messo le mani avanti che non intenderebbero accettarlo. Non si vedrebbe neanche come mai, ora che il processo sta avviandosi alla conclusione. Manfred Götzl non è caduto nell’inganno: il Senato ha semplicemente accantonato temporaneamente la decisione. In passato, all’inizio del dibattimento lo stesso Götzl aveva adombrato la possibilità di voler espungere la parte relativa all’attentato nella Keupstraβe di Colonia perché per esso dei legali minacciavano di voler andare a caccia di mandati e finire di sommergere la Corte di richiesta di ammissione per troppe parti civili, rischiando di fare esorbitare più di quanto già non lo fosse il processo. Gli avvocati delle vittime della bomba anche allora si opposero efficacemente ad uno stralcio.
Immagine di copertina: colonna di trasporto dei detenuti, foto dell’autore
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