Giustizia
Italia culla del diritto e bara dell’economia
Un recente dibattito svolto sul Corriere ha avuto come oggetto l’ipertrofia del nostro sistema giudiziario e l’impatto sullo svolgimento ordinato della vita economica e sullo sviluppo. Il pensiero va immediatamente ai TAR, la nostra giustizia amministrativa, troppo spesso utilizzata come strumento competitivo dalle aziende che partecipano a gare pubbliche. Da questo punto è partito il contributo di Gerardo Villanacci (Corriere della Sera, 3 agosto). Abolire il giudice amministrativo? Giulio Napolitano (Corriere della Sera, 7 agosto) ha risposto rivendicando il ruolo della giustizia amministrativa con l’esperienza di altri paesi e richiamando le iniziative, quelle in corso e quelle possibili in futuro, per ridimensionare l’impatto del sistema giudiziario amministrativo sull’attività economica. Infine, Luca Enriques (Corriere della Sera, 11 agosto) ha esteso la questione a un tema più generale, di “cultura giuridica”, in cui il giudice si comporta come un arbitro che in campo soffre di protagonismo, finendo per “spezzare il gioco” e di fatto rappresentando un elemento di freno allo sviluppo economico.
In effetti se in un campo di calcio o di rugby l’arbitro fosse convinto di essere la vera ragione che ha riempito lo stadio compierebbe un errore fondamentale di interpretazione del proprio ruolo. E ciò che è peggio è che questa convinzione tipicamente induce l’arbitro a comportarsi proprio in modo da uscire dal campo con la conferma di essere stato effettivamente il protagonista del gioco. Di un buon sistema giudiziario, come di un buon arbitro, non si dovrebbe neppure avvertire la presenza. Pare essere questo il sistema giuridico che ha in mente Luca Enriques, nel suo intervento, e non si può non essere d’accordo con lui, pur rilevando comunque che questa posizione è rara tra gli specialisti del diritto.
Se siamo d’accordo che si tratti di un problema di “cultura giuridica”, nutro seri dubbi che l’evoluzione di questa cultura possa derivare da una maggiore attenzione da parte del sistema giuridico ai temi del funzionamento dell’economia e dello sviluppo. Continuando nel nostro paragone calcistico, si auspica un arbitraggio che non ostacoli il gioco, un “arbitraggio all’inglese”. Su questo ho una posizione opposta. Ritengo che la considerazione delle compatibilità economiche abbia l’effetto di aumentare l’intralcio che il sistema giuridico può arrecare al funzionamento del sistema economico, e ridurre, anziché aumentare, la certezza del diritto, cioè la prevedibilità della decisione di un magistrato.
C’è da dire che tracciare una demarcazione tra diritto ed economia è estremamente complesso. In primo luogo, almeno nel campo del diritto civile ed amministrativo, la decisione di adire i tribunali è in larga misura di tipo economico: per questo è molto difficile capire se intervenire con gli strumenti del diritto o dell’economia. In secondo luogo il rischio di errori giudiziari in temi di controversie economiche è aumentato proporzionalmente con la complessità dei prodotti finanziari e dei contratti, a cui non si sono adeguati gli operatori del diritto, e questo ha reso le liti giudiziarie scarsamente prevedibili, per non dire vere e proprie scommesse. Se questo è vero, parrebbe che il nostro sistema giuridico abbia più bisogno di “cultura economica” che non giuridica.
Se da un lato mi auguro che la cultura giuridica si arricchisca di concetti economici, in modo da rendere fondate le decisioni su questi temi, mi preoccupa molto che considerazioni di tipo economico intervengano all’interno di decisioni giuridiche. L’esempio che più rappresenta le mie preoccupazioni è un dibattito di qualche anno fa in merito a decisioni da parte della Consulta sulla liceità o meno di blocchi a indicizzazioni delle pensioni e agli scatti stipendiali nella pubblica amministrazione. A quel proposito ricordo che si sviluppò un dibattito che mise insieme due termini che per me non possono stare insieme in nessuna ricetta: diritti e sostenibilità economica. L’idea che il riconoscimento dei diritti debba superare la prova della sostenibilità economica è un concetto per me aberrante. Si tratta di una chiara invasione di campo del mondo del diritto in quello dell’economia e della politica. Un diritto deve essere affermato se esiste, indipendentemente dal fatto che realizzare quel diritto sia “economicamente sostenibile”. E se chi quel diritto deve garantire non può farlo per mancanza di fondi, deve essere considerato insolvente.
Per essere chiari, in una Repubblica a cui i mercati attribuiscono da anni, non importa con quali governi, il 30% di probabilità di default entro dieci anni, noi vorremmo che il sistema giuridico facesse il proprio mestiere. Da un lato ci aspetteremmo che qualunque richiesta di taglio dei “diritti acquisiti” venisse costantemente respinta dalla nostra Consulta. Dall’altro ci aspetteremmo che la politica potesse d’imperio ripudiare questi “diritti acquisiti”, come può in principio ripudiare il debito finanziario. La Consulta che dà un aiutino alla politica risparmiandole di far fronte a dei diritti perché non può permetterselo ha solo due effetti: rendere imprevedibili le decisioni stesse della Consulta; viziare ancora di più la politica nella gestione della cosa pubblica.
Il problema dell’ipertrofia del diritto e l’impatto sull’economia resta però una realtà. I due temi sono chiaramente connessi. Ridurre la facilità con cui si decide di adire la via giudiziaria consentirà di ridurre la distorsione che ogni iniziativa giudiziaria può indurre sulle iniziative economiche. L’economia in questo caso è molto più semplice del diritto. Si devono ridurre gli incentivi a utilizzare il diritto come strumento di competizione economica. Oggi i costi sono alla portata di ogni impresa, e i rischi praticamente nulli. I costi sociali di una grande opera bloccata restano a carico della società. I processi oggi sono come le sfide a duello dei romanzi di appendice, con la differenza che uno spara, e se manca la controparte se ne può andare via al massimo chiedendo scusa. Se i costi che questa litigiosità giudiziaria venissero, come si dice in economia, internalizzati a carico di chi dichiara il duello, chi lo dichiara dovrebbe farlo sapendo che rischia la vita della propria impresa. Se si manca il colpo, si dovrebbe rimanere in piedi aspettando la fine. Solo così si affronterebbe un procedimento giudiziario come un atto di guerra, e non come una competizione sportiva.
Detto questo, anche quando il ricorso alla lite giudiziaria sarà ricondotto nei suoi limiti naturali, non dobbiamo dimenticare che il diritto ogni tanto genera paradossi e quando le poste in gioco cominciano a salire, qualcuno sarà pronti a sfruttarli. Il fenomeno non è italiano, è globale, ed è l’oggetto di speculazione di hedge fund specializzati. Esemplare è il caso dell’Argentina. L’Argentina ha dichiarato fallimento nel 2001, e nel 2005 e 2010 ha proposto ai creditori uno scambio dei propri titoli con una perdita di circa il 70%, acui la larghissima maggioranza dei creditori ha aderito. Il paradosso del diritto in questo caso è stato che facendo leva sul principio “pari passu”, e cioè che per il diritto americano a tutti i creditori deve essere imposta la stessa perdita, i fondi hedge hanno bloccato il pagamento del debito fin quando non sono stati pagati integralmente, in esatta violazione della regola “pari passu” a cui si sono appellati. E ovviamente, anche se gli hedge fund (Elliott, NML Capital e Aurelius) avevano comprato il debito dopo il default, per il 30% del valore, 450 milioni di dollari, il giudice di New York non ha potuto fare altro che applicare la norma, e bloccare il rimborso agli altri creditori fintanto che l’Argentina non ha pagato 1,5 miliardi ai tre hedge fund. Un miliardo e mezzo sottratto alle casse del bilancio pubblico argentino a favore di tre “club privé” di investitori, nel pieno del rispetto della legge, invocando un principio protetto dalla legge proprio per violarlo.
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