Giustizia
Io, tetraplegico arrestato: una sentenza sulla quale riflettere
Mi chiamo Lorenzo Ravaglia ho 40 anni e sono tetraplegico da sette a seguito di un incidente domestico nel quale mi sono lesionato il midollo spinale. Da allora mi trovo in uno stato di totale paralisi. Effettuo i miei spostamenti grazie ad una carrozzina elettronica. Non sono qui per fare un appello o gridare all’ingiustizia. Diversamente, vorrei raccontare una storia, porre qualche domanda ed evidenziare un problema che potrebbe far riflettere i nostri nuovi onorevoli.
La storia è quella del mio processo:
Giovedì 15 luglio 2021 gli agenti della Squadra Mobile della questura di Ravenna hanno sequestrato presso la mia abitazione: 17 piante di cannabis; 70 grammi di inflorescenze; due bilancini di precisione; una macchina per sottovuoto. Dopo la perquisizione sono stato sottoposto agli arresti domiciliari. Il 19 luglio il G.i.p. ha annullato ogni misura cautelare nei miei confronti. La richiesta del Magistrato inquirente era di un anno e dieci mesi di reclusione. Il 9 giugno 2022 sono stato assolto in primo grado con 131 bis. c.p.. Riassumo qui di seguito le motivazioni della sentenza:
Il reato sussiste, poiché in Italia è vietata la coltivazione e la detenzione di sostanze droganti. Nonostante ciò, il sottoscritto viene assolto “per la particolare tenuità del fatto”. Il giudice ha stabilito che, in concreto, non ho offeso i beni giuridici protetti (salute individuale e pubblica), non ho creato danni a terzi, i motivi del delinquere erano legati al mio stato di salute, le indagini non hanno mostrato nessun tipo di condotta criminosa. Inoltre, il giudice emette la sentenza tenendo conto delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
A questo punto sorgono all’ex imputato diverse questioni sulle quali la sentenza tace: coloro che hanno le condotto le indagini sapevano perché coltivavo cannabis? Gli stessi erano a conoscenza del mio stato di salute? Perché il delatore rimane anonimo, nonostante un giusto processo debba, costituzionalmente, garantire il diritto dell’accusato di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico? La coltivazione di cannabis a scopo terapeutico è legale o illegale? Forse che diventa legale dopo che è stata distrutta? Ora posso ricominciare la coltivazione? Forse che non ho subito danni al mio stato di salute oltre che morali e materiali?
La noncuranza delle indagini è stata tale che, con tutta evidenza, il giorno in cui mi hanno tratto in arresto, gli agenti ignoravano il mio stato di salute, dunque il motivo a causa del quale coltivavo cannabis. Tuttavia, la mia inclinazione all’indulgenza verso di loro dipende dalla incoerenza della procedura normativa alla quale essi devono sottostare.
Infatti è evidente che l’attuale legislazione pone urgenti questioni riguardo la sua coerenza interna: essa produce un proliferare di processi nei quali i giudici, dovendo interpretare il singolo caso concreto, emettono sentenze tra loro molto contraddittorie. Tuttavia, negli ultimi anni sempre più arresti effettuati sulla base del d.p.r. 190/1990 terminano con assoluzioni, soprattutto quando si tratta di coltivazione ad uso personale e terapeutico. Quindi, anche la giurisprudenza più recente evidenzia la contraddittorietà del Testo unico stupefacenti del 1990. Inoltre, se gli obiettivi delle convenzioni internazionali in materia di droghe erano e restano quelli di una “società libera dall’abuso di droga, in modo da assicurare che ogni popolo viva in salute, dignità e pace, con sicurezza e prosperità”, sembra evidente il fallimento di legislazioni a stampo proibizionista.
Nonostante ciò, oggi, in Italia, dati il panorama sociale e culturale, il risultato elettorale e soprattutto il livello puerile del dibattito pubblico è estremamente difficile, nel breve termine, un ripensamento della legislazione in materia di disciplina sugli stupefacenti il quale, dovrebbe partire necessariamente dall’abolizione del d.p.r. 309/1990.
Questo soprattutto perché la legittimazione di una norma poggia, oltre che sulla sua efficacia, sull’accettazione sociale, ovvero sulla coesione con cui una comunità condivide i principi che la ispirano. Purtroppo senza un serio confronto pubblico è impossibile dialogare in modo onesto e costruttivo su questioni di principio. Le esiziali scelte di editori, direttori e politici, negli ultimi trent’anni hanno creato un teatrino mediatico che ha venduto agli italiani guerre di opinioni ideologiche combattute dalle barricate dei soliti gruppi editoriali. In tal contesto ogni questione diventa buona per essere strumentale a un interesse politico. Così, negli anni, cresce l’indifferenza – particolarmente delle generazioni più giovani – verso ciò che è pubblico, il privato diviene l’unico mondo e la difesa dei diritti civili resta una consolazione per la borghesia da salotto.
Oggi, disgraziatamente, la politica – soprattutto se vuole essere radicale – è chiamata dalla realtà a ripartire dai diritti civili fondamentali. La cannabis non può essere percepita come una priorità quando la situazione sociale e politica é quella di un paese che si ritrova più povero di 30 anni fa, industrialmente arretrato, con un mercato del lavoro e un sistema scolastico inefficienti, con un welfare al collasso e chiuso nei suoi eterni pregiudizi culturali.
Secondo l’Art.3 della nostra costituzione “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Se non saremo in grado di dialogare pubblicamente in modo civile sul futuro che ci attende, rischiamo l’estinzione di tutto quello che diamo per scontato come, per esempio, la libertà di proporre l’abolizione del Testo unico sugli stupefacenti. Dovremmo accontentarci di continuare a vivere – come ormai da trent’anni – in una realtà parallela nella quale, lentamente e inesorabilmente, vengono a sgretolarsi i diritti fondamentali, ma mai scontati, di una società libera.
Concludendo, devo ringraziare gli avvocati Claudio Miglio e Lorenzo Simonetti per la qualità della loro assistenza e per l’energia e la passione civica con la quale svolgono il loro lavoro.
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