Giustizia

Ilaria Cucchi, le foto e quella lezione da insegnare nelle scuole

5 Gennaio 2016

Tra le forze dell’ordine del nostro Paese si annidano germi che stanno proliferando tra omertà e totale assenza di un approccio organico alla questione. Machismo e maschilismo, abuso della propria posizione, soprusi, un generale senso di immunità verso le regole cui è sottoposto tutto il resto della cittadinanza: sembrano questi i tratti distintivi di ampie porzioni di carabinieri e poliziotti. E non si tratta di generalizzare, perché è proprio qui che risiede il cuore del problema: per comprendere le proporzioni del fenomeno occorre, innanzitutto, acquisirne piena consapevolezza. Ma, sino a oggi, l’argomento ha costituito un inviolabile tabù e chiunque abbia tentato di collocarlo al centro del dibattito pubblico è stato puntualmente criminalizzato.
Verso la fine del 2009 una tragedia ha però iniziato a insidiare questo silenzio penoso. Tutto merito della tenacia e dello stoicismo di una donna meravigliosa, Ilaria Cucchi, che suo malgrado non ha voltato la testa dall’altra parte e che ha puntato i riflettori sulla morte del fratello. Perché, forse qualcuno se lo dimentica, per lei sarebbe stato molto più semplice accettare le versioni di comodo delle istituzioni e imparare a convivere quotidianamente con un dolore così atroce. Al contrario, dal primo giorno ha chiesto chiarezza e ha continuato con fatica e perseveranza, scontrandosi con ostacoli di ogni genere e, soprattutto, si è ritrovata costantemente dinanzi le foto di Stefano emaciato e massacrato, mentre ascoltava e leggeva ricostruzioni di percosse e torture. Una lezione da insegnare, ogni giorno, nelle scuole.

 

Ma tutto ciò non è bastato per garantirle almeno una dose essenziale di rispetto. Per oltre 6 anni si è mossa esclusivamente nei binari istituzionali, promuovendo la propria battaglia all’interno delle sedi preposte dallo Stato. Spesso si è spesa per raffreddare gli animi di chi avrebbe preferito reagire con ben altre modalità. Poi, un giorno di inizio 2016, pubblica su Facebook la foto di uno dei carabinieri inquisiti per il pestaggio che causò la morte di Stefano, limitandosi a recuperarla dal profilo stesso dell’uomo. E’ un’immagine che gronda machismo e maschilismo da ogni angolo e che come ha spiegato Ilaria con impareggiabile efficacia “è perfettamente coerente col contenuto dei dialoghi intercettati e con gli atteggiamenti tenuti sino a oggi dai protagonisti”.

 

Il carabiniere, evidentemente assalito da un moto di vergogna, ha prima cancellato la foto dal social network e poi ha annunciato che denuncerà Ilaria la quale, è opportuno sottolineare, si è immediatamente dissociata dai commenti violenti di altri utenti. Ma, dimostrando ancora una volta il suo coraggio e la sua levatura, ha spiegato di non coltivare alcun pentimento per la pubblicazione della foto. Buona parte dell’informazione ha accusato Ilaria di aver messo alla gogna quell’uomo, di averlo sottoposto a un linciaggio. Imputazioni grottesche, dato che la famiglia Cucchi è stata infangata per oltre sei anni con ogni genere di aneddoto o storia artefatta. Occorre, invece, ricordare qualche passaggio delle intercettazioni dei carabinieri sotto inchiesta. “Se ci mandano via, andiamo a fare le rapine”; “Ragazzi ce la dobbiamo giocare per avere la pena sospesa”; “Quel pm è proprio un figlio di m…”. Rendere noto alla collettività chi è l’autore di queste indegnità è un servizio per cui Ilaria andrebbe ringraziata, invece viene crocefissa. Forse più di qualcuno si è dimenticato cosa significhi assumersi le proprie responsabilità.

 

E qui si torna al punto iniziale: la cultura che si sta propagando tra le forze dell’ordine. Sono sempre di più i casi saliti agli orrori delle cronache: da Federico Aldrovandi a Giuseppe Uva, passando per Manuel Eliantonio. Ma sono soltanto di alcuni esempi. Senza dimenticare quando il 27 marzo 2013 gli agenti del Coisp di Ferrara sostarono provocatoriamente sotto casa Aldrovandi nel giorno del congresso regionale del sindacato di polizia, esponendo lo striscione: ‘La legge non è uguale per tutti. I poliziotti in carcere, i criminali a casa. Solidarietà, amicizia, speranza, affetto per Luca, Paolo, Monica, Enzo”. Oppure quando Fabio Tortosa, lo scorso aprile, scrisse su Facebook: ‘Io sono uno degli 80 del VII Nucleo. Io ero quella notte alla Diaz. Io ci rientrerei mille e mille volte”. Riferendosi allo stesso scenario che un suo collega definì una macelleria messicana.

 

Azioni e parole di una gravità senza precedenti, il cui impatto si moltiplica se si pensa che riguardano appartenenti alle forze dell’ordine. Perché non possiamo dimenticare che chi indossa la divisa incarna anche l’obbligo di un’assunzione di responsabilità di gran lunga più consistente rispetto agli altri cittadini. Se oggi ci occupiamo finalmente della questione, se iniziamo a interrogarci sulle modalità di selezione degli agenti, il merito è in gran parte di Ilaria Cucchi che ha scoperchiato il Vaso di Pandora. Dobbiamo quindi soltanto ringraziare e omaggiare la sua perseveranza, il suo impegno e il suo rispetto per la polis, intesa come comunità civica e politica. I suoi sforzi hanno contagiato tante altre persone, che hanno trovato la forza per far riaprire vicende torbide seppellite indecorosamente. Perché quel giorno decise di non fermarsi più finché non fossero stati squarciati silenzi e omertà, nonostante quelle foto suggerissero a chiunque di riporre la testa sul cuscino e di affidarsi alla rimozione.

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