Giustizia

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, morti senza verità e giustizia

20 Marzo 2023

Da quel 20 marzo 1994 omissioni, coperture, depistaggi, silenzi hanno impedito di sapere. L’hanno impedito ai familiari e a tutti gli italiani

Oggi, 20 marzo 2023, ricorre il 29° anniversario dell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Ventinove senza verità né giustizia per la giornalista della Rai e il cineoperatore che la accompagnava nelle sue inchieste. Prima di loro aveva pagato con la vita il sottufficiale del Sismi Vincenzo Li Causi, una delle fonti dell’inviata romana. Sulla loro morte, ancora oggi, di sicuro c’è solo un segreto. Un mistero che si nasconde a Bosaso, una piccola città del Nord-Est della Somalia affacciata sul golfo di Aden. Un segreto individuato da Ilaria Alpi e che, probabilmente, le è costato la vita.

Un fatto è certo: tra il 16 e il 20 marzo 1994 la Alpi era a Bosaso con l’operatore Miran Hrovatin. E che qualche ora dopo aver rimesso piede a Mogadiscio, i due giornalisti furono uccisi in un agguato condotto da sette killer. Hanno “visto” qualcosa? E sì, cosa videro, esattamente? La domanda è senza risposta, perché da allora omissioni, coperture, depistaggi, silenzi hanno impedito di sapere. L’hanno impedito ai familiari e a tutti gli italiani.

«Ilaria intendeva da tempo recarsi a Bosaso», dichiarò a Famiglia Cristiana Alberto Calvi, l’operatore Rai che la accompagnò in Somalia per ben quattro volte tra il 1992 e il 1993 «Non ci andammo prima perché impegnati a seguire i fatti di cronaca a Mogadiscio e perché non avevamo soldi e scorta a sufficienza; c’era il rischio di lasciarci la pelle». Anche la famiglia non ha mai avuto dubbi «Che Ilaria volesse andare a Bosaso, lo provano gli appunti da lei scritti prima di partire per il suo ultimo viaggio e ritrovati in redazione, a Roma». Il suo stesso caporedattore al Tg3, Massimo Loche, ha confermato in udienza che «sin dalla partenza da Roma, Ilaria aveva intenzione di recarsi a Bosaso». Il 27 maggio 1999, in una lettera scritta a Famiglia Cristiana dal carcere in cui è attualmente detenuto, Garelli racconta che il 4 maggio 1994, nemmeno due mesi dopo il duplice omicidio, a Nicosia, nell’isola di Cipro, incontrò Ilija Fashoda, «un cittadino somalo, in possesso di passaporto jugoslavo», con il quale parlò del delitto. L’uomo gli disse: «Ero al Nord della Somalia mentre quella giornalista ficcava il naso negli affari di Bogor, il sultano di Bosaso, e immaginavo che l’avrebbero minacciata di non andare più in là di tanto. Quello che di sicuro le ha creato dei problemi è il fatto di aver “grattato” le questioni della cooperazione. Ho saputo con certezza», è sempre Fashoda che parla, «che la giornalista aveva ripreso delle scene nel Nord della Somalia, con delle lunghe carrellate sulle casse di materiale in mano alle “bande” di Bosaso: tu sai che origine avevano quelle armi, no?»

Gli investigatori hanno ritenuto che che Ilaria Alpi possa essere stata uccisa, non tanto per aver raccolto informazioni e prove su presunti trasporti di armi fatti con i pescherecci della società italo-somala Shifco, quanto per aver scoperto a Bosaso depositi di armi trasportate da Hercules C-130 italiani e ancora recanti l’indicazione della loro provenienza dai Paesi dell’Europa orientale. Il 7 agosto 1997 un altro testimone, Marco Zaganelli, dichiarò: «Nel periodo in cui sono stato in Somalia, io e tanti altri abbiamo notato con cadenza settimanale la presenza di aerei militari non identificati del tipo Hercules che scaricavano armi in Somalia». Dall’Italia alla Somalia, via mare e via cielo. Così nel 1992, nel 1993 e anche nel 1994, sotto gli occhi della missione Onu.

Che i loschi affari fossero in pieno svolgimento proprio nell’anno in cui vennero uccisi Ilaria e Miran, lo sostiene anche Francesco Elmo che fornì anche dettagli circa la rotta della nave che li trasportava. Nel suo memoriale del 22 agosto 1997 srisse: «Nel 1994 un gruppo di personaggi di area socialista erano posti alla regìa di una vendita di armamenti “libici” alla Somalia».

In realtà la Somalia cela misteri nel mistero, con un meccanismo simile alle scatole cinesi. Sono tre i nomi, e altrettanti omicidi, che si legano indissolubilmente tra loro e sono Ilaria Alpi, Vincenzo Li Causi e Mauro Rostagno. La giornalista della Rai fu assassinata insieme all’operatore Miran Hrovatin a Mogadiscio, il 20 marzo 1994. Vincenzo Li Causi, uomo del Sismi, per un certo tempo attivo presso il centro Scorpione, la struttura di Gladio operante a Trapani che fu ucciso a Balad, in Somalia il 12 novembre 1993. Mauro Rostagno, ex leader di Lotta Continua, giornalista e fondatore, insieme a Francesco Cardella, della comunità Saman per il recupero dei tossicodipendenti, venne trucidato nei pressi di Trapani il 26 settembre 1988. In questi eventi c’è un comune denominatore: la Somalia. Secondo quanto dichiarato ai magistrati da Carla Rostagno, sorella di Mauro, il fratello avrebbe visto e filmato l’arrivo a Trapani, in un aeroporto abbandonato (già usato da un gruppo di Gladio), di velivoli militari italiani da trasporto che scaricavano aiuti umanitari per imbarcare armi e ripartire. Rostagno avrebbe dato copia della registrazione a Francesco Cardella. Dall’inchiesta “Cheque to cheque”, condotta dalla Procura di Torre Annunziata, emerse che esistevano rapporti dei servizi segreti italiani sulla morte di Rostagno ordinati da Bettino Craxi, una cui copia fu ritrovata durante una perquisizione della sede romana del gruppo craxiano Giovane Italia. Francesco Cardella conosceva l’ex segretario del Psi. Giuseppe Cammisa, stretto collaboratore di Cardella, era in Somalia nei giorni della morte della Alpi e di Hrovatin ufficialmente perché Cardella l’aveva inviato al fine di occuparsi di aiuti umanitari e della costruzione di un ospedale a Bosaso.

Segreti, silenzi, omissioni e depistaggi sono il condimento che ha avvolto la morte di Ilaria e Miran. È sufficiente pensare ad Hashi Omar Assan, vero e proprio capro espiatorio, condannato innocente nel 2000, in via definitiva, dalla Procura di Roma a ventisei anni di carcere. Scarcerato “per non aver commesso il fatto” dopo diciassette anni com’è stato scritto nella sentenza del tribunale di Perugia del 12 gennaio 2017, stabilendo altresì che l’unico teste d’accusa “il soggetto Ahmed Ali Rage detto Jelle era falso e coinvolto in attività di depistaggio di ampia portata (…) attività di depistaggio che ben possono essere avvalorate dalla modalità della fuga del teste (prima del processo ndr) e dalle sue mancate ricerche”.

Giorgio e Luciana, i genitori di Ilaria sono morti ed entrambi non hanno potuto avere verità e giustizia relativi alla morte della figlia, perché il diritto alla verità, oltre che alla giustizia, in Italia è difficilmente ottenibile.

 

 

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