Giustizia
L’autocritica che manca ai tutori dell’ordine di fronte ai casi di mala Polizia
Nel 2001, nel quartiere di Albaro, a Genova, la sera del 21 luglio 2001, nelle scuole Diaz, Pertini e Pascoli, centro del coordinamento del Genoa Social Forum, durante il G8, facevano irruzione i Reparti mobili della Polizia di Stato con il supporto operativo dei Carabinieri.
Durante il G8 tra manifestanti e forze dell’ordine ci furono parecchi scontri, ma quelli avvenuti nella DIAZ, furono i più cruenti. La notte fu rotta dal rumore delle centinaia di anfibi che correvano, dai vetri infranti dai manganelli, dalle urla dai corridoi ed a far da sottofondo il suono delle sirene.
Dopo più di due ore di tutto quello che nessuno vorrebbe accadesse e che fa male anche a pensarlo, alcuni manifestanti, finiscono in ospedale. Fu la notte della Diaz.
Giuliani era morto due giorni prima.
Morire durante una manifestazione, poteva accadere ancora, dopo gli anni di piombo.
Alle due di notte l’intervento delle forze dell’ordine finisce, alla Diaz non è rimasto quasi nessuno, o arrestati o feriti. In quei posti, il sangue, era diventato il colore della tragedia:
– “Don’t clean up the blood“ si dirà.
Nell’aprile del 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo, ha condannato lo Stato italiano al pagamento di un risarcimento, ma lo ha fatto evidenziando come durante l’operazione fossero stati infranti molti articoli della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Il 22 giugno 2017 la stessa Corte ha nuovamente condannato l’Italia per i fatti della scuola Diaz, riconoscendo che le leggi dello Stato risultano inadeguate a punire e a prevenire gli atti di tortura commessi dalle forze dell’ordine.
La giustizia italiana, anche se lentamente e con fatica, cerca di fare il suo corso.
Il giorno 13 novembre 2008 viene emessa la sentenza di primo grado. Per l’irruzione nella scuola Pascoli e gli eventi successivi, su due richieste di condanna vi è stata una sola sentenza di colpevolezza. Vengono assolti i vertici delle forze dell’ordine presenti durante il fatto e i responsabili che firmarono i verbali dell’operazione. Assolti anche due agenti indagati relativamente alla questione del dubbio accoltellamento da parte di un manifestante. L’accusa aveva chiesto 28 condanne, su 29 persone processate, per un totale di circa 109 anni di carcere.
Il 10 febbraio 2009 sono state depositate le motivazioni della sentenza di 1º grado, che nel riconoscere che:
– « … la perquisizione venne disposta in presenza dei presupposti di legge. Ciò che invece avvenne non solo al di fuori di ogni regola e di ogni previsione normativa ma anche di ogni principio di umanità e di rispetto delle persone è quanto accadde all’interno della Diaz Pertini. »
e che
– « In uno stato di diritto non è invero accettabile che proprio coloro che dovrebbero essere i tutori dell’ordine e della legalità pongano in essere azioni lesive di tale entità, anche se in situazioni di particolare stress.»
esclude che essa fu organizzata come “un complotto in danno degli occupanti” o una “spedizione punitiva”, “di rappresaglia”.
Il 17 marzo 2009 l’avvocato dello Stato, in rappresentanza del Ministero dell’Interno, ha presentato ricorso in appello contro le condanne. Pochi giorni dopo, anche l’accusa ha deciso di ricorrere in appello con il Procuratore.
Il 18 maggio 2010 la terza sezione della Corte d’Appello di Genova ha riformato la sentenza di primo grado condannando tutti i vertici della catena di comando della Polizia che erano stati assolti nel precedente giudizio. In totale sono stati condannati 25 imputati su 28, per una condanna complessiva ad oltre 98 anni e 3 mesi di reclusione.
Nelle motivazioni della sentenza la corte evidenzia che:
– « Difficilmente in un processo è dato riscontrare un complesso di elementi probatori orali (deposizioni testimoniali) e documentali (riprese audio e video, tabulati telefonici, registrazioni di telefonate) tanto nutrito come quello che in questo processo documenta la fase di esecuzione dell’operazione di perquisizione nelle scuole Pertini e Pascoli. »
E che:
– « E ciò è tanto vero che tranne un solo difensore […], nessuno degli imputati pone in dubbio che l’esito dell’operazione sia stato l’indiscriminato e assolutamente ingiustificabile pestaggio di quasi tutti gli occupanti, come del resto ritenuto dal Tribunale. Ne è ulteriore conferma la constatazione che le difese non si incentrano sulla negazione dell’accadimento dei fatti di lesione, ma sull’attribuzione ad altri della responsabilità di tale illecita condotta. »
Per la Corte, non è possibile descrivere i fatti in esame come la somma di singoli episodi delittuosi occasionalmente compiuti dagli operatori indipendentemente l’uno dall’altro in preda allo sfogo di bassi istinti incontrollati; al contrario, trattasi di condotta concorsuale dai singoli agenti …
La responsabilità di tale condotta e, quindi, delle lesioni inferte, è pertanto ravvisabile in capo ai dirigenti che organizzarono l’operazione e che la condussero sul campo con le modalità e le finalità sopra descritte; trattasi di responsabilità commissiva diretta per condotta concorsuale con quella degli autori materiali delle lesioni, da cui il diverso esito processuale per molti degli imputati.
Il ricorso in Cassazione
Nell’aprile 2011 Procuratore Generale chiese alla Corte d’Appello di accelerare le pratiche burocratiche per il passaggio del processo al vaglio della Cassazione. Il timore espresso dal procuratore è che intoppi e lungaggini burocratiche causino la prescrizione dei reati commessi.
L’avvocato dello Stato, pur ammettendo le violenze all’interno della scuola (“L’operato della polizia fu grave. Inaccettabile che dei ragazzi fossero stati feriti”), ha chiesto l’annullamento della sentenza di appello per i 25 imputati, in quanto non direttamente responsabili delle violenze e, al tempo, non i più alti in grado tra coloro che decisero l’operazione c’erano persone ben più alte in grado.
Il 5 luglio la Cassazione conferma in via definitiva le condanne per falso aggravato, confermando l’impianto accusatorio della Corte d’Appello.
Nel 2013 sono state depositate le prime cause civili contro il Viminale chiedendo risarcimenti.
Per il fatto che in Italia le leggi non prevedessero a quel tempo il reato di tortura, un ricorso è stato presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo da Arnaldo Cestaro, che all’epoca dei fatti aveva 62 anni ed era stato una delle vittime del violento pestaggio da parte della polizia durante l’irruzione nella scuola. Il 7 aprile 2015, i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno condannato all’unanimità lo Stato Italiano a risarcire Cestaro con 45.000 euro per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”) ritenendo che l’operato della Polizia di Stato alla Diaz “deve essere qualificato come tortura”. Nelle motivazioni si legge che l’ammenda è stata imposta non solo per i fatti specifici, ma anche perché non era stata promulgata alcuna legge sulla tortura, consentendo ai responsabili del pestaggio di non essere sanzionati.
La sentenza Cestaro ha avuto un seguito il 22 giugno 2017, quando la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia con motivazioni analoghe a risarcire altri 29 occupanti della Diaz torturati dalla polizia durante il G8. I nuovi risarcimenti sono stati fissati tra i 45.000 e i 55.000 euro a persona.
La Corte dei Conti
I giudici della corte dei Conti della Liguria già si erano pronunciati con una questione di legittimità costituzionale per quanto riguarda il risarcimento del danno all’immagine, come richiesto dalla procura. Il caso è di notevole importanza ai fini risarcitori, perché il processo penale si era concluso con la prescrizione, ma il giudice d’appello aveva condannato il funzionario in solido con il ministero al risarcimento civile dei danni e delle spese processuali.
I giudici contabili rinviarono gli atti alla Suprema Corte, e la decisione peserà anche sui fatti avvenuti alla Diaz.
Successivamente, nel maggio di quest’anno, la sezione Giurisdizionale della corte dei Conti della Liguria, seguendo le sollecitazioni della Procura, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 7 del cosiddetto “lodo Bernardo” relativo al danno d’immagine per quanto riguarda i fatti del G8 di Genova del 2001, nello specifico per gli episodi di violenza avvenuti nella caserma di Bolzaneto.
Già ad aprile, i giudici, proprio per quei fatti avevano condannato a un risarcimento di oltre 6 milioni di euro (per il solo danno patrimoniale) 26 persone, tra personale medico-sanitario, appartenenti della polizia, carabinieri e polizia Penitenziaria.
Adesso la procura della Corte dei Conti della Liguria ha chiesto oltre 8 milioni di euro (3 milioni di danni patrimoniali e 5 per danno d’immagine) a 27 appartenenti ed ex appartenenti alla polizia di stato, per i pestaggi avvenuti alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001.
A essere citati dalla procura contabile sono i dirigenti e i funzionari dell’epoca. Per la procura, devono risarcire un danno patrimoniale indiretto, ovvero i risarcimenti alle parti civili pagati dal Ministro dell’Interno, oltre alle spese legali per i processi, il tutto per oltre 3 milioni di euro. Nei prossimi mesi sarà fissata l’udienza davanti ai giudici contabili che dovranno decidere nel merito. Secondo il pm contabile, lo Stato, non solo ha dovuto affrontare importanti risarcimenti, ma ha subito anche un grande danno d’immagine, quantificato in 5 milioni di euro.
Il pm sottolinea però “come sia per i fatti per cui vi è stata una condanna, che per quelli per cui è intervenuta la prescrizione, si siano accertate le responsabilità e vi sia stata condanna al risarcimento danni e al rimborso delle spese, nonché il riconoscimento di provvisionali in favore delle parti civili”.
Un mestiere difficile quello del tutore dell’ordine.
Gli operatori in divisa conoscono davvero tutti i rischi penali, disciplinari e amministrativo – contabili a cui possono andare incontro con il loro operato?
Il “poliziotto” rientra in una particolare categoria di dipendenti statali, perché oltre a far parte, insieme del cosiddetto “pubblico impiego non privatizzato”, è incardinato in un’amministrazione civile ma ad ordinamento speciale.
Da questa sua particolare collocazione derivano diversi ulteriori status, che si sommano a quello di appartenente alla Polizia di Stato, alcuni generali quali pubblico ufficiale, ufficiale o agente di polizia giudiziaria e pubblica sicurezza, ed altri specifici come, dirigente/responsabile di uffici o singole articolazioni, datore di lavoro, responsabile del servizio di prevenzione e protezione, responsabile del procedimento, direttore dell’esecuzione del contratto, responsabile del trattamento dei dati, consegnatario, etc.
Ad essi conseguono profili di responsabilità di diversa natura, individuabili principalmente in quattro forme di responsabilità:
– penale, disciplinare, civile, amministrativo-contabile.
A tal punto non appare superfluo prospettare che spesso vengono attivati procedimenti in più sedi, sia giudiziarie che amministrative, di frequente connessi o interdipendenti, i cui esiti hanno, ricadute di diverso tenore.
Per la responsabilità civile e amministrativo contabile, sono prevalentemente patrimoniali, mentre per quella penale o disciplinare, conseguenze ricadenti sul rapporto di servizio/lavoro, come in extrema ratio la destituzione.
Gli atti giudiziari, su cui non vi è stata pronuncia definitiva o ancora peggio una condanna con successiva prescrizione, possono venire acquisiti ed utilizzati in sede disciplinare, in particolare alla luce delle prime quattro previsioni destitutorie dell’art. 7 del D.P.R. n.737/81, di portata espressamente qualitativa ed ampiamente discrezionali, quali:
per atti che rivelino mancanza del senso dell’onore o del senso morale;
per atti che siano in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento;
per grave abuso di autorità o di ducia;
per dolosa violazione dei doveri che abbia arrecato grave pregiudizio allo Stato, all’Amministrazione della pubblica sicurezza, ad enti pubblici o a privati.
Pertanto il rischio per il poliziotto di essere denunciato o citato in giudizio, a causa del servizio o in ragione dei propri status, e quindi incappare in disavventure giudiziarie è assai elevato.
Se di fronte ai fatti commessi con dolo non vi può essere alcuni giustificazione o limitazione della responsabilità e delle relative conseguenze, negli altri casi, senza incorrere nella “polizia difensiva”, devono essere adottati i generali principi di prevenzione, quali la professionalità, la correttezza, l’attenzione, la ponderazione e precisione nei comportamenti, la scrupolosa ed oggettiva documentazione delle attività svolte, il costante aggiornamento ed addestramento con tecniche sempre più sofisticate.
Vi sono, inoltre, strumenti giuridici di tutela e limitazione del rischio di varia tipologia: previsti dalla legge e di fonte contrattuale, quest’ultima sia a titolo collettivo che individuale.
Rientrano nella prima specie gli istituti ex lege della cd. tutela legale, operanti quando viene attivato un procedimento giudiziario a carico di un appartenente alla Polizia di Stato:
– articolo 18 della Decreto Legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito nella Legge23 maggio 1997, n. 135 (ope- rante per tutti i dipendenti statali);
– articolo 32 della c.d. Legge Reale del 22 maggio1975 (specifico per ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o dei militari in servizio di pubblica sicurezza per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica).
Nella seconda categoria sono ricomprese:
– la cd. “copertura assicurativa”, dei rischi e tutela legale inerenti alle responsabilità connesse allo svolgimento delle attività istituzionali del personale della Polizia di Stato;
– le assicurazioni collettive sottoscritte dai sindacati con fondi propri a favore degli scritti;
– le polizze accese dai singoli con onere personale.
Ci è voluto molto tempo per far si che l’attenzione dell’opinione pubblica si attivasse nei confronti di un fenomeno, quello del vedere i poliziotti distanti dalla loro figura anche di persone.
Certo il problema non è solo loro ma della società nel suo complesso, il rapporto profondo tra cittadino e istituzioni, evidenziando le profonde responsabilità della classe politica.
Alle radici di tale anomalia vi è soprattutto la pericolosissima tendenza di un governo incapace di risolvere i problemi economici e sociali a scaricare sulle forze dell’ordine tali problemi.
Dalla Diaz e a Bolzaneto, alle morti di Aldrovandi, Cucchi e vari altri, sono segnali particolarmente inquietanti perché costituisce un aspetto di un regime autoritario che poco a poco si sta imponendo. Uno dei possibili esiti dell’attuale crisi della politica determinata dalla mancanza di prospettive e dalla corruzione dei partiti. Mentre dall’altra le forze dell’ordine, stressati da una condizione lavorativa molte volte difficile per carenza di mezzi, tuttora inquadrati in un ordinamento gerarchico molte volte privo di scopo se non quello di giustificare inutili arbitrii da parte dei superiori, questi uomini e donne cercano a volte nella violenza, l’affermazione brutale del potere fine a se stesso.
Unico rimedio per uscire da questo circolo vizioso, è il recupero autocritico, da parte delle forze dell’ordine, della loro vera funzione, che è quella di proteggere e assistere i cittadini, analizzando in chiave soggettiva e personale, ordini forse illegittimi e sproporzionati.
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