Giustizia
Il G8, la Diaz e l’importanza di essere condannati per tortura
Sul fatto che prima o poi l’Italia si beccasse una condanna da qualche corte internazionale per i fatti del G8 di Genova ci si poteva scommettere un patrimonio. L’arretratezza della legislazione italiana in materia faceva ben sperare. La consolidata tendenza a coprire reati (macelli) commessi dalle forze dell’ordine pure. Le promozioni concesse ad alcuni dei protagonisti di quella notte avevano addirittura aumentato le probabilità. Forse la figuraccia di proporzioni internazionali poteva spingere i più ottimisti a credere in una risposta delle autorità italiane. E invece ieri mattina è arrivata a rassicurarci la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani che nel caso Cestaro c. Italia (6884/11) ha condannato l’Italia per violazione dell’art.3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, divieto di tortura e trattamenti o pene inumani e degradanti, riconoscendo un risarcimento di 45.000 euro ad Arnaldo Cestaro, 62enne manifestante vicentino che la notte del 21 luglio 2001 fu pestato dalla polizia (mentre continuava a gridare di essere un anziano e una persona pacifica) all’interno della scuola Diaz dove dormiva, riportando fratture multiple e danni permanenti.
Insomma, tutto bene quel che finisce bene: la Polizia non ci rimette la faccia, la vittima è soddisfatta e lo Stato paga il risarcimento. E poi una condanna CEDU non è certo una novità per l’Italia, basta leggere le statistiche: dal 1959 al 2014 la Corte ha emesso quasi 18.000 pronunce, 2.312 delle quali nei confronti dell’Italia (seconda solo alla Turchia). Di queste, 1.760 sono sentenze di condanna (anche qui siamo secondi solo alla Turchia). Perché allora la sentenza di ieri è così importante? Andiamo con ordine.
1) L’Italia è stata condannata sulla base dell’art. 3 della Convenzione EDU “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. E’ importante sottolineare che delle due fattispecie indicate i giudici hanno ritenuto ricorresse quella di “tortura”, ovvero la più grave, come dimostrato dal fatto che l’Italia è stata condannata in precedenza solo 4 volte per fatti di tortura (26 sono invece le condanne per pene o trattamenti inumani e degradanti). Secondo i giudici “le violenze sono state perpetrate con intento punitivo e di rappresaglia, cercando di provocare l’umiliazione e la sofferenza fisica e mentale delle vittime”. “Il sig. Cestaro è stato attaccato da ufficiali di polizia, che l’hanno preso a calci e battuto con i tonfa, e l’hanno colpito molteplici volte su diverse parti del corpo, provocando fratture multiple e un indebolimento permanente del braccio destro e della gamba destra”. La Corte nota “l’assenza di qualsiasi connessione causale tra il comportamento del sig. Cestaro e l’uso della forza da parte della polizia”. “Il maltrattamento è dunque stato inflitto in maniera totalmente gratuita. Non può essere considerato mezzo proporzionato a raggiungere lo scopo delle autorità”. Le tensioni “possono essere spiegate non tanto da ragioni oggettive e circostanziali quanto dalla decisione di realizzare arresti ben pubblicizzati”. Tutto ciò considerato, il maltrattamento “deve essere qualificato come tortura”.
2) La condanna è duplice: oltre che per i maltrattamenti subiti da Arnaldo Cestaro, l’Italia è stata condannata anche per “l’inadeguatezza della sua legislazione penale al fine di punire atti di tortura e per la mancanza di un effettivo deterrente volto a prevenire violazioni simili dell’art. 3 in futuro”. Infatti la Corte nota che “gli ufficiali di polizia che hanno attaccato il sig. Cestaro non sono mai stati identificati né soggetti a investigazioni e sono rimasti impuniti”. L’impossibilità di identificare i responsabili è dovuta a difficoltà oggettive del caso “ma anche alla mancanza di cooperazione della polizia”, che “ha rifiutato, con impunità, di fornire la cooperazione necessaria alle autorità competenti”. Inoltre “i reati di calunnia, abuso di potere e lesioni fisiche gravi sono andati prescritti prima della decisione di appello”, il che spiega per quale motivo i maltrattamenti inflitti al sig. Cesaro non hanno determinato alcuna condanna. E ancora “la Corte nota che le autorità non hanno reagito in maniera adeguata dinanzi ad azioni di tale gravità”. “Un simile esito non può essere imputato a mancanze o negligenze dei pubblici ministeri, ma all’inadeguatezza della legislazione italiana applicabile al caso di specie”. Dunque la seconda condanna va ben oltre la semplice assenza nell’ordinamento italiano del reato di tortura: per i giudici si tratta di un “problema strutturale”, che ha determinato una violazione dell’obbligo positivo in capo agli Stati di predisporre le misure interne che assicurino il rispetto dei diritti umani”.
3) La Corte si è spinta ancora oltre, indicando (cosa che fa non di frequente) le misure da adottare per rimuovere le violazioni accertate: “introdurre un quadro normativo adeguato, incluse, in particolare, disposizione penali effettive”.
4) Tra tali misure rientra certamente il reato di tortura. In materia l’Italia è in ritardo di 26 anni: da quando ha ratificato il 3 novembre 1988 la Convenzione ONU contro la tortura, che prevede l’obbligo per gli Stati di considerare prevedere il reato nella legislazione interna. Al momento un disegno di legge è all’esame del Parlamento da quasi due anni: arrivato il 22 luglio 2013 in Senato, è stato approvato il 5 marzo 2014. Trasmesso poi alla Camera, è rimasto finora in commissione: se la Camera confermerà le modifiche, il provvedimento dovrà tornare a Palazzo Madama per l’approvazione definitiva.
5) La sentenza del 7 aprile 2015 è una pietra miliare per un’ultima ragione: sarà un precedente rilevante nell’analisi degli altri procedimenti pendenti dinanzi alla CEDU per casi simili. Ne sono almeno due: Azzolina et alii c. Italia (che coinvolge 12 richiedenti sia italiani che stranieri) e Kutschkau et alii c. Italia (19 richiedenti, anche qui di diverse nazionalità).
Breve nota a margine. Ieri abbiamo finalmente appurato che la violenza, il sangue, la “macelleria messicana” di quella notte sono tortura non solo nei cori delle manifestazioni ma anche per il diritto, almeno quello europeo. C’è qualcosa però che nessuna sentenza potrà restituire alla verità: il preciso intento di colpire alcuni per mandare un messaggio a tutti. Quella sera alla Diaz, quella notte alla Bolzaneto, i tonfa e i pestaggi suonarono forte per diffondere una spiegazione comoda: che chi va per no-global è un black block e che ai black block non è riservata tolleranza alcuna. Genova fu l’apice di quella vergogna: una vergogna il cui ricordo non è legato alle macchie di sangue che non si lavano ma a tutte le occasioni perse da allora per fare del nostro un Paese con una legislazione e delle forze dell’ordine degne di una democrazia civile.
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