Giustizia

Il calzino di Davigo, le miserie della politica ed è quasi 1992

26 Aprile 2016

Tira una brutta aria ultimamente. È quasi un’aria da 1992, con Renzi a fare Berlusconi e Davigo a impersonare il revival di se stesso, vent’anni dopo. E già si immaginano scenari da lunga estate calda e intercettazioni choc in arrivo. Si vedrà. E, però, mentre è già da tempo che il capo dell’Anm va sollevando questioni sostanzialmente destabilizzanti, è soltanto dopo che ha tirato fuori l’argomento principe d’una certa demagogia – i politici rubano: e sai che novità – che spaziose fronti si sono d’improvviso aggrottate; poi, rapidamente, tutto s’è trasfigurato nel solito pappappero già visto tante volte al tempo di Berlusconi e, più di recente, col referendum sulle trivelle, quando tutto s’è misurato sulla figura di Renzi: non conta più la sostanza dei fatti ma ci si schiera come se il tema fosse il leader: contro o in favore; ciò che, peraltro, impedisce di valutare le questioni sollevate da Piercamillo Davigo le quali sono invece cosa serissima, soprattutto ora che silenziose nubi da tempo s’addensano nuovamente sulla giustizia.

Di Renzi, e di come il presidente del consiglio su questo terreno sia passato all’attacco, qualcosa in realtà s’è scritto anche perché a molti certe sue affermazioni concomitanti con le inchieste di Potenza – si veda il colpo sulla «barbarie del giustizialismo» sferrato in Senato – hanno ricordato il Berlusconi dei tempi d’oro, quello che ruggiva contro le toghe, affermandone persino una qualche diversità antropologica. A più d’uno, quello del presidente del Consiglio è apparso un atteggiamento piuttosto discutibile e preoccupante, come un relitto che riemergesse inatteso dal recente passato; d’altra parte, la strategia dello scontro frontale con i magistrati è da almeno vent’anni che in Italia paga in termini elettorali come sa bene proprio Silvio Berlusconi, e di questi tempi Renzi sembra infine costretto a occuparsi anche del proprio elettorato il quale, a quanto sembra, va restringendosi.

Vita più facile sembra invece aver avuto Davigo che ha concesso interviste a ripetizione. In ciascuna di queste interviste ha sviluppato ragionamenti e affermato idee condivisibili; in ciascuna di queste interviste, però, ha anche affermato idee che sarebbero dispiaciute a Montesquieu e a molti altri dopo di lui. Conviene riepilogarne qualcuna, almeno quelle che più di tutte potrebbero pesare quanto, all’epoca, pesò l’«antropologicamente diversi» berlusconiano.

Rispondendo alle domande di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, Davigo ha dichiarato: «La presunzione d’innocenza è un fatto interno al processo, non c’entra nulla coi rapporti sociali e politici», fingendo di dimenticare che però la presunzione di non colpevolezza è ciò che distingue la giustizia dello Stato liberale dalla Inquisizione. A Dimartedì, intervistato da Giovanni Floris, ha affermato: «Si dice: aspettiamo le sentenze. Ma il più delle volte le sentenze verranno pronunciate sulla base di elementi che sono già noti all’inizio»; ed è apparso quasi un invito al giudizio sommario, una diminuzione della magistratura giudicante in favore di quella requirente; e anche per questa strada sembra doversi tornare ai fasti – per così dire – del processo inquisitorio. Quindi, ha proseguito: «Nessuno viene messo dentro per farlo parlare. Viene messo fuori se parla, che è una cosa diversa»; e in questo caso pare inutile ogni commento. Infine, l’intervista al Corriere della Sera; e qui, nei toni della rievocazione di un’epoca oramai andata e nell’assumere una posizione frontalmente opposta alla politica, Davigo sembra infine rivendicare del tutto alla magistratura un ruolo astrattamente moralizzatore che però non è proprio della magistratura per come l’ordine giudiziario viene regolato in Costituzione. E, mentre rivendica concetti che soltanto a una certa destra potranno piacere – «Non ci sono troppi prigionieri; ci sono troppe poche prigioni» – Davigo sembra fare l’eco al se stesso di vent’anni fa quando annunciava: «Rivoltiamo questo Paese come un calzino», così piacendo anche a una certa sinistra.

In questi giorni s’è letto della vicenda di quella pm di Imperia che, per aver espresso apprezzamenti su Gabriel Garko testimone in una inchiesta che stava seguendo, da quella inchiesta è stata rimossa. C’è chi ha ironizzato e chi si è scandalizzato ma – al netto dei retroscena su certe presunte frizioni interne a quella procura – c’è da chiedersi come reagirebbero questi critici il giorno nel quale, vittime anch’essi d’un reato, si ritrovassero l’inquirente a discutere su Facebook di quanto sia carino e simpatico l’imputato o un testimone. Certamente chiederebbero al proprio avvocato di sollevare dubbi sulla imparzialità di quel magistrato e, quindi, dubbi sulla regolarità dell’intero procedimento. Ed è proprio questo, in buona sostanza, il genere di problemi che si cerca di allontanare imponendo ai magistrati di evitare un certo genere – e che sia chiaro: un certo genere – di esposizione mediatica, e quindi, come diceva Sandro Pertini, d’essere e apparire imparziali a tutela, appunto, del procedimento e della amministrazione della giustizia. E, allora, ecco: è vero che Davigo è il capo del sindacato dei magistrati, e che dunque qualche licenza gli è pur concessa, ma dovrebbe ricordare che ogni magistrato deve sempre essere e anche apparire imparziale. E naturalmente questo non vale soltanto ad Imperia o quando l’argomento è Gabriel Garko.

Che, poi, a fare il contrario, a dare la sensazione di criticare tout court i politici e non gli atti dei politici, e insomma a non dar retta a Pertini, si finisce soltanto per fare un favore proprio ai politici ai quali si regala la possibilità di cavarsela con certe risposte esemplari che rischiano di chiudere la partita. «Dire che tutti sono colpevoli – ha ringhiato Renzi – significa dire che nessuno è colpevole. Voglio nomi e cognomi dei colpevoli. E voglio vedere le sentenze». Ed è proprio questo il confine per i magistrati: la sentenza. Oltre quel confine, tutto è politica e nessuno, certamente nemmeno Davigo, si augura davvero che i magistrati possano fare politica con ancora la toga sulle spalle.

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