Giustizia

Il Caballero con il ferro, il giudice Zapatista e le Istituzioni fottute

5 Gennaio 2024

In questi giorni a cavallo tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024 tante cose hanno attivato gli assoni del mio cervello. Certe così complesse – come le vicende del Medio Oriente o dell’Ucraina – da sfuggire alla mia capacità di analisi sensata. Altre, forse perché più misere, sono invece più affini alle mie capacità intellettive.

Le due vicende, chiaramente differenti ma – come dirò – a mio avviso accomunate, sono la storia del pistolero bum bum che è anche un Deputato della Repubblica Italiana e la vicenda del giudice della Corte dei Conti che, in preda a una hybris rivoluzionaria si è messo a twittare come fosse un qualunque cittadino.

Per parlare della prima vicenda, su cui molti anche qui hanno scritto, ossia del Caballero che alla festa di Capodanno arriva e pensa che sia divertente presentarsi con una pistola per salutare il nuovo anno – pensando di stare in una serie tipo Suburra o Gomorra e forse contribuendo in un modo o nell’altro a ferire una persona (perché se la pistola che ha sparato e ferito e la sua, solo Iddio sa quanto sia coinvolto) – ho provato a cercare di capire il perché. Perché un Deputato, che tra l’altro – come ha ben detto la Presidente del Consiglio Meloni – si porta appresso responsabilità che non sono solo sue, va a una festa con una pistola e forse spara anche? Le indagini chiariranno molti aspetti; resta il fatto che mi sono più volte immaginato la scena di questo che arriva, un po’ su di giri per le tante lenticchie e cotechino ingollati per dar la stura alla tradizione e – come il Miguel della Carmencita – magari inizia a tirare colpi all’aria con la sua pistola. Non so cosa direbbe Freud ma io, qualche pensiero su repressioni importanti, ammetto di essermelo fatto.

Negli stessi momenti e su un fronte completamente diverso, poiché qui non v’è né violenza (perché quando si spara, di quello si tratta: di inquietante violenza) né rilevanza penale, balza ai disonori della cronaca la vicenda del Giudice della Corte dei Conti che – il 30 dicembre – probabilmente anche lui per una pulsione adolescenziale, si mette a twittare (o forse oggi si dovrebbe dire, dato il triste declino di quel social, a “icsare”) delle puerili minchiate politicistico rivoluzionarie contro il governo, tirando in mezzo la povera, ignara, segretaria del PD. Come era normale che fosse, si è aperto il cielo. Perché per un Giudice della Corte dei Conti “uno non vale uno”. È qualcosa di più e ha responsabilità in più.

Cosa accomuna, dunque, queste due vicende in un medesimo, triste, destino? A mio modesto avviso la cosa che le accomuna è che entrambi le storie, da prospettive differenti, se ne fottono e letteralmente si fottono le Istituzioni. Ciò che colpisce è la drammatica dispercezione che gli attori che hanno recitato queste parti in commedia hanno di sé e della realtà. È come se non si rendano conto che i loro gesti o le cose che scrivono non sono confinabili alla loro figura personale ma corrodono quello che rappresentano. La funzione di rappresentanza politica della sovranità popolare in un caso e una importante branca della Giustizia contabile nell’altro. Quei due, ahinoi, sono “istituzioni”.

E l’aggravante è che una volta fatta la frittata nessuno dei due abbia detto: “sì, ho fatto una solenne castroneria e sono pronto a pagarne le conseguenze”. No, maledizione. Nulla di ciò. Uno nega tutto e si avvale probabilmente dell’immunità parlamentare e l’altro rilancia sentendosi un novello Emiliano Zapata seppur probabilmente molto meno patito dalla fame che attanagliava il colonnello rivoluzionario messicano. Confesso, dopo aver visto i servizi al TG su tale questione di essermi ascoltato di getto “Un giudice” di Fabrizio De Andrè.

E in questo senso mi par di poter dire che sia da destra, sia da sinistra, il fondamentale “senso delle Istituzioni” sia andato a ramengo.

Su questi temi sarebbe bene che i raziocinanti, di ogni parte, evitino di strumentalizzare una vicenda contro l’altra e viceversa ma, con la volontà di salvaguardare il patrimonio che è la terzietà, la dignità, la reputazione (che dovrebbe essere esemplare e alzarsi dal livello della terra) e il prestigio delle Istituzioni, dicano in ogni dove che la matrice dell’edonismo irresponsabile è una piaga collettiva. Perché se questa “classe dirigente” non viene obbligata – o dalla legge o dall’opinione collettiva – a fare una severa autocritica, a essere fottute – più di quanto già lo siano – non saranno solo le Istituzioni, ma tutti noi.

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