Giustizia
Giovanni Falcone, il magistrato credibile
“Professionalità significa innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora.” Parole di Giovanni Falcone.
Parole chiare che sintetizzano il modo di agire di un magistrato di grande capacità, da molti detestato in vita ed oggi, dopo la tragica morte nell’attentato di Capaci, messo sugli altari. Sta in queste parole anche l’idea di una giustizia “alta” che non può prestarsi, o piegarsi, a disegni che non siano quelli del raggiungimento degli obiettivi che ne costituiscono la stessa ragion d’essere. E sta in queste parole, che dovrebbero far lezione a quanti oggi vestono i panni dei paladini antimafia, la differenza fra chi con il proprio lavoro vuole raggiungere un obiettivo certo e chi invece si accontenta di soddisfare le proprie narcisistiche pulsioni di protagonismo.
Rispetto delle regole, di cui è pezzo forte la “prova” che veniva a costituire la linea di demarcazione fra chi osserva il “principio di legalità” e chi di questo principio, anche se per fini non eticamente disprezzabili, ritiene di non tenere conto. Sta in questo la stessa idea di civiltà giuridica, conquista difficile e frutto di secolari elaborazioni della cultura occidentale. Un’idea e un metodo che ponevano Falcone in rotta di collisione non solo con chi aveva, apertamente o in maniera occulta, sostenuto un sistema nel quale mafia e potere erano andati spesso a braccetto – parlo della cosiddetta “borghesia mafiosa” della quale facevano anche parte pezzi del mondo politico – , ma anche con chi, strumentalizzando la situazione che si era venuta a creare a seguito della recrudescenza della violenza mafiosa, impostava battaglie ideologiche o, semplicemente, strumentali per farne mezzo, come denunciò Sciascia nel famoso articolo sui professionisti dell’antimafia, di ascese professionali o politiche.
La ricerca delle prove certe sulle quali costruire il processo per Falcone era, dunque, fondamentale e, per questo motivo, non si fece scrupolo di realizzare collegamenti e collaborazioni che andavano oltre l’asfittico spazio in cui si erano mossi, fino ad allora, gli inquirenti.
Le sue missioni all’estero, negli Stati Uniti e, perfino, in Thailandia per venire a capo dei commerci internazionali di droga, il suo penetrare nei santuari del sistema bancario per comprendere i meccanismi finanziari – a cominciare dal riciclaggio del denaro sporco – che stavano dietro e sostenevano l’impresa mafiosa, tutto questo metteva in crisi e, quindi, disturbava chi era abituato al rispetto di quei santuari e che per questo considerava vera e propria dissacrazione il fatto che divenissero oggetto di indagini e conoscenza. Disturbava anche magistrati stessi che di quel sistema si sentivano parte.
Stesso discorso valeva anche per quanti, magistrati o personaggi pubblici, avevano sollevato la bandiera dell’antimafia in termini strumentali alimentando un becero giacobinismo giustizialista. A Falcone, questi ultimi, non potevano perdonare la sua prudenza nell’adottare provvedimenti cautelari o restrittivi, un quasi fastidio per il tintinnar di manette che tanto piaceva a certa stampa. Persino dei collaboratori di giustizia (cd. pentiti), di cui lui stesso era stato in qualche modo l’inventore, venivano trattati con cautela e le loro rivelazioni passate al vaglio per non cadere nelle facili trappole che uomini senza scrupolo potevano approntare.
Esempio eclatante di questo muoversi con intelligenza e attenzione la vicenda del falso pentito Pellegriti. Quest’ultimo aveva accusato l’eurodeputato Salvo Lima di essere il mandante dell’omicidio di Piersanti Mattarella, informazione ghiotta a cui il Nostro non abboccò; dopo l’interrogatorio del pentito, essendosi reso conto del falso, lo inquisì immediatamente per calunnia.
Purtroppo quel metodo, cioè del non adottare provvedimenti senza prove concrete o sostenibili, che è anche criterio di legalità, unito alla sua autonomia trasformarono molti – cosiddetti amici – se non in nemici in infastiditi osservatori ivi compresi coloro che immaginavano che la via giudiziaria fosse la strada giusta per la conquista del potere del potere a Palermo. Falcone fu infatti accusato di custodire nei suoi cassetti chissà quali segreti su indecenti rapporti fra politica e mafia.
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