Giustizia

Giornalismo: a che servono i collegamenti dalla casa del presunto assassino?

2 Aprile 2017

Qualche mese fa l’Unione delle Camere Penali diffuse alcuni dati di un Libro Bianco dedicato alla informazione giudiziaria. Gli esiti di quella indagine erano largamente prevedibili per chi guardasse con un minimo di onestà a come si parla di giustizia penale sui giornali: oltre la metà delle notizie di giustizia penale riguardano arresti e fasi preliminari delle indagini.

Poco più del 10 per cento invece si occupa del dibattimento.

Analizzando i soli titoli degli articoli di cronaca giudiziaria, a fronte di un 40 per cento giudicato “colpevolista”, meno del 4 per cento è invece “innocentista”.

Analizzando le fonti delle notizie, il 60 per cento sono dall’accusa o dalla polizia giudiziaria. Nel 6,8 per cento dei casi, invece, dalla difesa.

Sono dati che confermano quel che si sa: l’informazione giudiziaria è generalmente appiattita sulle posizioni dell’accusa, spesso dà per scontato che una misura di limitazione della libertà personale riguardi un colpevole e induce la facile conclusione, in chi legge, che se è stato arrestato qualcosa avrà fatto.

Per questo è da salutare con grande ottimismo un segnale che è arrivato a chi scrive sabato, partecipando ad un incontro di quelli formativi, che i giornalisti devono frequentare per accumulare crediti obbligatori – come è giusto che sia – anche per chi fa questo lavoro.

Il segnale è arrivato da Vittorio Roidi, cronista per molti anni, poi a capo dell’Ordine nazionale e del sindacato.

Oggi Roidi insegna il mestiere di giornalista.

Insieme ad un avvocato perugino, Francesco Falcinelli e a Paolo Micheli. un magistrato che a Perugia ha lavorato (oggi è consigliere di Cassazione), Roidi era protagonista di un incontro titolato “Presunzione di innocenza e giusto processo: il ruolo dei media”. Un tema non nuovo – da almeno 30 anni si organizzano periodicamente incontri dedicati a questo. In genere ognuno recita la sua parte, e tutti tornano a casa saldi nelle convinzioni che avevano prima.

Stavolta però a non rispettare il copione è stato il giornalista, uno che ha fatto il cronista, spesso il cronista giudiziario. Roidi infatti ha detto che la bandiera che spesso viene issata ad accompagnare questo mestiere, la bandiera della ricerca della verità, non “regge” più. Ha detto che si è stancato di sentire questo slogan.

“Una volta feci anche un appostamento sotto casa di un un tizio, con tanto di fotografo dietro, perché eravamo convinti che fosse l’assassino”, ha raccontato Roidi. Oggi probabilmente non lo farebbe. E sicuramente non ne può più di vedere trasmissioni tv e articoli di giornale che danno per scontata la colpevolezza di chi viene indagato o arrestato. “Vediamo approfondimenti notturni in cui uno di noi è collegato in diretta davanti alla casa del presunto assassino o della vittima. ‘E ora ci colleghiamo con…’ Ma che ci fanno lì davanti? Cosa aggiunge alla conoscenza dei fatti quel collegamento? Poi si apre la nostra piccola commedia, abbiamo una criminologa, uno psichiatra, un magistrato del tribunale dei minorenni, un cronista giudiziario e parte il processo mediatico”…

Quando si parla di cronaca giudiziaria, ci sono due mantra che ci vengono ripetuti da chiunque:

  1. Quando ha una notizia, un giornalista la pubblica.
  2. Occorre sempre ricordarsi della domanda che si fece Biagi su Tortora: e se fosse innocente?

La notizia è che Roidi ha contestato questi due sacri principi del mestiere.

Ha contestato il primo, invitando i giornalisti (i direttori) a ricordare che il loro potere di pubblicare o meno una notizia coinvolge altri, per esempio la persona che è stata sottoposta ad indagine, o cui è stata tolta la libertà. E chi l’ha detto che quella notizia di un avviso di garanzia o quella intercettazione che nessun altro ha debbano necessariamente essere pubblicate?

Ha contestato il secondo perché – ha detto – non ci si deve chiedere se un indagato o un imputato possa essere innocente. Si deve ricordare che chiunque è innocente fino a condanna definitiva. Che il principio di non colpevolezza vuol dire che chiunque, per i fatti che gli vengono attribuiti da un PM, anche con il parere favorevole di un giudice, è innocente fino a che una condanna non abbia ribaltato questo principio, perché sta all’accusa dimostrare la colpevolezza, non all’indagato provare la sua innocenza. “Fosse pure Carminati, vale anche per lui, anche se di uno che fa il saluto fascista posso pensare il peggio possibile”, ha detto Roidi.

A un certo punto il vecchio cronista ha chiesto alla platea – diverse decine di giornalisti, giovani e meno giovani – se qualcuno sapesse chi fosse Sergio Moroni. Pochissime mani si sono alzate e lui ha dovuto ricordare il deputato socialista che si suicidò dopo essere stato indagato nella famosa inchiesta “Mani pulite”.

Prima di uccidersi Moroni scrisse una lettera al Presidente della Camera, che allora era Napolitano. Una lettera che – ha detto Roidi – dovrebbe essere affissa come monito sulla scrivania di ogni cronista. Diceva tra l’altro Moroni, motivando il suo gesto:

“Mi auguro soprattutto che possa servi­re a evitare che altri nelle mie stesse condizioni abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari (in piazza o in televisione) che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di con­danna”.

E’ possibile che, come negli altri casi, gran parte dei giornalisti sia uscito da quel convegno con le certezze che aveva prima di entrarci. Ma se anche le sollecitazioni di Roidi avessero costretto solo un altro giornalista a chiedersi, la prossima volta che ci sarà da raccontare una inchiesta giudiziaria, se non sia il caso di aspettare un secondo prima di pubblicare la solita ondata di intercettazioni o di non dare per scontato che l’arrestato che secondo l’accusa è in carcere per una “impressionante mole di indizi” sia colpevole, l’incontro sarà stato davvero formativo.

 

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