Giustizia

Fiandaca: giudici strabordanti contro politici incompetenti, come ne usciamo?

20 Maggio 2015

Possiamo prevedere che, in un futuro prossimo, assisteremo a un progressivo riequilibrio nei rapporti tra politica e magistratura?

Quanti confidano che il declino del berlusconismo costituisca già un motivo sufficiente perché la magistratura politicamente antagonista muti atteggiamento, rinunciando all’obiettivo ambizioso di promuovere il rinnovamento politico e la rigenerazione morale del Paese, hanno una visione forse troppo ottimista. Non perché il contesto politico generale, con i mutamenti di scenario che vi si dischiudono, sia irrilevante rispetto alla dialettica dei rapporti tra potere politico e potere giudiziario. Tutt’altro. Proprio nell’attuale contingenza politico-governativa, incentrata su di un personaggio per diversi aspetti inedito come Matteo Renzi, sembrerebbero invero emergere segnali di una possibile inversione di rotta rispetto al recente passato: nel senso di cominciare a riaffermare l’autonomia e la dignità della politica, ripristinando il principio della divisione dei poteri come realtà di fatto oltre che come valore astratto. In questo senso deporrebbero certe recenti decisioni governative (come il taglio delle ferie estive per i magistrati), che lasciano anche simbolicamente trasparire il concreto avvio di un tentativo di svolta.

È tuttavia ancora presto per diagnosticare il tipo di cultura che il nuovo gruppo dirigente renziano intende privilegiare come orizzonte di riferimento nel campo della giustizia penale. Si assisterà al recupero e al rilancio di una cultura garantista all’altezza delle sfide del tempo presente? Se è fondata l’impressione che il nuovismo renziano si sia finora tradotto in un attivismo dilettantesco, mentre non si intravedono ancora i tratti di ben delineate visioni culturali, è lecito nutrire più di un dubbio. Certo, col far mostra di scetticismo si rischia di essere iscritti d’ufficio nella declinante schiera di quegli intellettuali conservatori (“professoroni” o “gufi”), che mostrerebbero scetticismo per partito preso o per invidia delle nuove leve che avanzano. Ma anche ammesso che questo conflitto generazionale abbia psicologicamente un peso, Renzi farebbe bene a distinguere tra critiche preconcette e critiche fondate invece su quel genere di competenze di cui un’efficace azione di governo non può fare a meno. È dunque auspicabile che la dirigenza renziana non disdegni d’ora in avanti di avvalersi in materia di giustizia del contributo di idee provenienti da valorosi studiosi del ramo, anche a prescindere dall’età anagrafica.

Ai fini di un riequilibrio nei rapporti tra politica e giustizia è forse ancor più decisivo, a ben guardare, il tipo di cultura destinato ormai a prevalere all’interno della stessa istituzione giudiziaria. Oggi, la magistratura è un universo assai variegato; le differenze di orientamento al suo interno trascendono le diversificazioni politico-culturali riconducibili alle tradizionali correnti. In realtà, tra i magistrati delle ultime generazioni la tentazione dell’esposizione politico-mediatica è in regresso mentre cresce, di conseguenza, l’inclinazione a privilegiare la dimensione più strettamente tecnico-giuridica del mestiere di giudice (col riemergente rischio, peraltro, di chiusure burocratico-corporative). Per altro verso, la suggestione (illusione?) di un controllo di legalità concepito in senso molto ampio, cioè includente la pretesa di esercitare – per dirla con Alessandro Pizzorno – un generalizzato «controllo della virtù» dei ceti dirigenti, non è scomparsa ma persiste anche tra i magistrati più giovani (sia pure nei termini di un moralismo giuridico abbastanza ingenuo, privo di basi culturali degne di questo nome).

Se questo è lo scenario odierno, la magistratura complessivamente considerata esibisce alla fine una fisionomia non solo molteplice, ma anche incerta e confusa. L’incertezza e la confusione riguardano anche la condotta del magistrato considerata sotto il profilo deontologico, in particolare riguardo alle legittime forme di partecipazione al dibattito pubblico (fino a che punto è ammissibile che un pubblico ministero, come spessissimo di fatto avviene, rilasci interviste su indagini da lui gestite o ne parli in televisione, ecc.?). Non si può certo dire che il CSM, l’Anm o gli stessi capi degli uffici si siano finora distinti per la capacità di esercitare una reale funzione di orientamento e un effettivo controllo.

Così stando le cose, è difficile prevedere se nel prossimo futuro riuscirà ad affermarsi un modello di magistrato dall’identità ben definita, predominante rispetto a modelli concorrenti. Ma, proprio per questo, non sarebbe il caso di aprire un ampio dibattito – interno ed esterno all’ordine giudiziario – sul modello di magistratura più adatto all’attuale fase della democrazia italiana? Ammesso che le discussioni pubbliche vere, interessate ai contenuti e ai valori, abbiano ancora un senso nell’età della democrazia mediatica.

(Brano tratto dall’introduzione di Giovanni Fiandaca a Processo e Legge Penale nella Seconda Repubblica, di Andrea Apollonio)

 

 

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