Giustizia
Enzo Tortora, o della malagiustizia
Il venerdì 17 giugno 1983, la giustizia italiana scriveva una delle sue pagine più brutte.
Quel giorno scattavano le manette per il giornalista televisivo Enzo Tortora, con l’accusa infamante di essere associato all’organizzazione criminale di Raffaele Cutolo“nuova camorra organizzata” e, in quanto, tale coinvolto nel traffico di stupefacenti.
Un fatto che, proprio per la notorietà del personaggio, rimbalza su tutte le pagine dei giornali e diviene il caso nazionale per eccellenza.
Tortora viene tradotto in carcere, ammanettato, come un criminale senza curarsi di preservane un minimo di privacy.
Per Tortora iniziava allora un calvario che sarebbe durato per tre lunghi anni, nel corso dei quali quell’uomo, dai modi garbati e dall’acuta intelligenza, verrà posto al pubblico ludibrio come, lo si legge nella sentenza di primo grado che lo condannava addirittura a dieci anni di carcere, “cinico mercante di morte”.
Tutto era nato da un equivoco, un nome e un numero telefonico scritto a penna su un’agendina sequestrata ad un camorrista.
Una cattiva lettura di quel nome, Tortora invece che Tortona, e il mancato accertamento della titolarità di quel numero telefonico, portano gli inquirenti, la cui proverbiale superficialità avrebbe dovuto fare riflettere, direttamente a Tortora, uomo di spettacolo allora molto in vista e, come ammetterà Vittorio Feltri in un primo tempo iscritto fra i colpevolisti, “antipatico” anche per quella che gli inquisitori avevano definito “maschera di cortesia e di fair play”.
Su Tortora, supportato da tutta una serie di dichiarazioni non riscontrate di criminali che avevano tutto l’interesse a buttare fango sul presentatore, viene costruito un allucinante teorema che lo fa, addirittura, uno dei cervelli dell’organizzazione camorristica.
A nulla valgono le proteste di innocenza della vittima di quel meccanismo perverso, i giudici trasformano il processo in qualcosa di simile ad un tribunale da santa inquisizione.
Il dramma di Tortora è accresciuto dalla solitudine nella quale si viene a trovare, un’Italia perbenista, carica di odi e invidie e sempre pronta a condannare, si scatena contro l’uomo di successo finalmente mortificato.
Ed in effetti, l’Italia si divide fra innocentisti, pochi, e colpevolisti la maggior parte, esempio del peggiore tifo da stadio. In quel momento drammatico, in cui tutto sembra congiurare contro, solo Marco Pannella e i radicali, coscienza civile del Paese, si schierano accanto alla vittima.
Per tirare fuori dal carcere Tortora, Pannella lo candida al Parlamento europeo.
Nonostante le evidenti contraddizioni il tribunale condanna Tortora in primo grado. Una sentenza che desta stupore e alla quale, con grande dignità e rispetto della legge, il condannato si adegua rinunciando alla immunità parlamentare ed accettando gli arresti domiciliari.
Una sentenza che di lì ad un anno verrà totalmente ribaltata, riconoscendo l’innocenza dell’imputato il quale, prendendo la parola nel corso del dibattimento, non aveva avuto alcuna remora a proclamare a quei giudici superficiali la sua innocenza ma, anche, ad affermare “spero dal profondo del cuore che innocenti lo siate pure voi.”
La sentenza di assoluzione con formula piena fu pronunciata il 17 giugno del 1987, ad essa tuttavia non seguì, come sarebbe stato giusto, nessun provvedimento nei confronti di quei giudici che per superficialità o imperizia, avevano offerto un’immagine poco edificante dell’impegno del magistrato.
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