Giustizia
Doppia condanna all’Italia dalla Corte europea per i diritti dell’uomo
Il caso Bartesaghi Gallo ed altri contro Italia (Domande n° 12131/13 e 43390/13) si riferisce alle percosse contro i dimostranti nella scuola Diaz durante il G8 di Genova del luglio 2001. I giudici europei hanno riscontrato, come avevano peraltro già fatto nel precedente giudizio Cestaro contro Italia (n° 6884/11, 7 Aprile 2015), una piena violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo che vieta la tortura ed i trattamenti degradanti.
Per i magistrati europei il trattamento cui sono stati sottoposti i ricorrenti dagli agenti di polizia è da considerarsi come tortura. I 42 occupanti della scuola erano stati percossi selvaggiamente dagli agenti, anche coloro che erano rimasti sdraiati o seduti a mani alzate e quindi non avevano commesso alcun atto di resistenza o violenza contro le forze dell’ordine. Gli agenti del VII Nucleo Antisommossa attorno alla mezzanotte del 21 luglio irruppero nell’edificio scolastico Diaz-Pertini facendo un uso indiscriminato e sproporzionato della forza. Secondo le parti lese la maggior parte degli agenti indossava delle maschere ed incominciò subito ad urlare percuotendo i presenti e scagliando contro alcuni di loro il mobilio. Non fu risparmiato nessuno, diverse le fratture con danni permanenti.
Contestualmente altri poliziotti entrarono nella contigua scuola Pascoli dove veniva trasmessa una diretta radiofonica e dei giornalisti stavano riprendendo gli avvenimenti, ingiungendo di fermare riprese e radiocronache e sequestrando il materiale girato. La Corte di Cassazione italiana aveva già riscontrato gli estremi della tortura espressi nell’art 3 della Convenzione per i pestaggi nella Diaz-Pertini, ma in assenza di una norma specifica nell’ordinamento nazionale aveva proceduto nei confronti degli agenti solo per i reati di procurate lesioni semplici od aggravate, per poi interrompere il procedimento per prescrizione. Anche per l’irruzione nella Pascoli la Corte d’Appello sospese il giudizio sul tentativo di distruzione delle prove per prescrizione, ancorché in questo caso la Cassazione rigettò la decisione.
La Corte Europea ha condannato il Governo Italiano ha risarcire a 27 dei richiedenti 45.000 euro ciascuno per il danno non pecuniario, elevati a 55.000 nei confronti di 2 signore. Altri 9 avevano invece già accettato un accordo transattivo, mentre 4 hanno rinunciato alla domanda risarcitoria. Inoltre i giudici hanno addebitato all’Italia 59.750 euro di spese anche a risarcimento dei costi sostenuti da alcuni dei ricorrenti.
Come indicato l’Italia non ha ancora nel suo ordinamento il reato di tortura, anche se un testo di legge più volte modificato giungerà ora in quarta lettura alla Camera. Tuttavia, dopo i diversi passaggi, è molto cambiato ed è criticato ma anche dal suo stesso primo relatore, il senatore del PD Lugi Manconi oltre che da organizzazioni come Amnesty International. Il quotidiano Repubblica evidenzia che mercoledì 21 giugno il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, in una lettera alle autorità italiane ha espresso preoccupazioni per il testo di legge all’esame del Parlamento.
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Il secondo smacco incassato dal nostro Paese è nel procedimento Barnea e Caldararu contro Italia (Domanda n°37931/15) e riguarda la rimozione, quando aveva 28 mesi, della figlia della coppia per darla in affidamento in vista di adozione, senza che in effetti sussistessero le condizioni eccezionali che ne giustificassero l’allontanamento dai genitori. Per la violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo sulla salvaguardia della vita privata e familiare, l’Italia è stata condannata a risarcire ai coniugi 40.000 euro per danni non pecuniari e 15.175 di spese. Il danno per la figlia sballottata tra affetti diversi è peraltro probabilmente irrimediabile.
I richiedenti, due genitori romeni con i rispettivi fratelli e sorelle, erano arrivati in Italia nel 2007 stabilendosi in un campo Rom; ora vivono a Caselle Torinese. La ricorrente aveva chiesto per due anni aiuto finanziario ai servizi sociali italiani senza ottenerlo ed una conoscente si offrì allora di aiutarla guardando la figlia presso casa propria. Il 2° giugno 2009 però, mentre accudiva la minore, la conoscente fu arrestata per frode. La polizia d’altronde aveva anche ricevuto una segnalazione anonima sulla presenza dell’infanta non sua nella casa e sospettò che i genitori l’avessero ceduta in cambio di un appartamento. La minore fu così subito posta in un istituto senza che venissero condotte indagini e nel dicembre 2010 fu giudizialmente deciso che dovesse essere data in affidamento in vista di adozione. Dietro ricorso dei genitori però il 26 ottobre 2012 la corte d’appello verificò l’esistenza di forti legami familiari della bimba coi genitori e dispose che fosse reintrodotta nella famiglia d’origine. I servizi sociali però non collaborarono ed il procuratore si oppose chiedendo la prosecuzione dell’affido della bimba. Nel novembre 2014 i giudici dovettero constatare che la reintroduzione della minore nella famiglia biologica era più difficile e disposero che si tenessero solo 4 incontri all’anno in un ambiente con supervisione. Nel gennaio 2015 poi rilevarono che la minore ormai si era ambientata nella famiglia affidataria e disposero che i genitori biologici potessero solo incontrarla ogni due settimane. Finché il Tribunale dei Minori nell’agosto 2016 non si avvide che l’affidamento era stato temporaneo e sentenziò che la ragazza potesse tornare nella famiglia di origine. Così avvenne nel settembre ma il passaggio ormai si rivelò oltremodo problematico per la giovane, dopo ormai 7 anni, e nel novembre la corte d’appello annullò la decisione.
In effetti i genitori avevano dovuto affidare la bimba a terzi per carenza di mezzi finanziari; ma il compito dei servizi sociali, a fronte del fatto che la bimba non dimostrava carenze affettive, scarso sviluppo emozionale, problemi di salute, o segni di maltrattamenti, né d’altra parte c’erano indicazioni di instabilità psicologica dei genitori, avrebbero dovuto fare sì che la figlia potesse vivere in famiglia. È proprio quello il compito dei servizi sociali -hanno rilevato i magistrati- aiutare le persone in difficoltà e che non hanno familiarità con le pratiche amministrative ed informali ed assisterli sulle possibilità di ottenere un alloggio popolare, od accedere ad altri programmi di ausilio finanziario. Decisa nell’ottobre 2012 la reintroduzione della minore in famiglia, essa avrebbe poi dovuto avere luogo entro 6 mesi. Il fatto che un minore possa essere introdotto in un ambiente più benefico per la sua crescita non giustifica di per sé solo la sottrazione ai genitori biologici. I giudici italiani decisero che dopo tanto tempo passato nella famiglia affidataria fosse però nell’interesse della minore continuare a risiedere nello stesso nucleo familiare. Se anche questo può apparire logico, nell’effettivo rispetto della vita familiare avrebbero dovuto considerare anche altri aspetti e non solo il trascorrere del tempo, tanto più che questo risultò dall’inerzia dei servizi sociali nel riunire la famiglia.
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Le sentenze non sono definitive il Governo italiano ha termine tre mesi per chiedere il deferimento dei procedimenti alla Camera allargata della Corte. Un collegio di 5 giudici ha il compito in tal caso di decidere se dare corso alla richiesta o cassarla, solo in quest’ultima evenienza le condanne diverrebbero definitive senza un ulteriore giudizio.
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