Giustizia
Dj Fabo e il processo a marco cappato hanno ridato senso alla parola dignità
Da via GB Grassi a Milano, dove c’è l’Ospedale Sacco, al valico commerciale di Brogeda (Chiasso, Svizzera) ci sono poco più di 44 km, pressapoco come una maratona. Non una grande distanza dal punto di vista cartografico, ma immensa per quel che riguarda i diritti civili e i bisogni di chi soffre nel proprio corpo. Gli esseri umani in buona salute, i runner, coprono un percorso di questa lunghezza intorno alle quattro ore, i professionisti sotto le le due ore e mezza.
Per Dj Fabo questi 44 km hanno significato la riconquista della sua libertà, quella di uscire dalla sua prigione fatta di carne e ossa, nervi e sangue, dove lo aveva relegato un brutto incidente che lo ha reso cieco e tetraplegico.
Nella notte di sabato 7 aprile, Un giorno in pretura, ha documentato il processo nei confronti di Marco Cappato per favoreggiamento al suicidio di Fabiano. È stata una visione insieme emozionante e straziante, una ventata fresca sul “dibattito” sul fine vita e il testamento biologico. È stato anche molto istruttivo per capire come è andata la vicenda, grazie alla ricostruzione rigorosa fatta dal processo e al ruolo centrale dei Pubblici Ministeri, capaci di affrontare l’argomento senza alcun preconcetto.
La trasmissione ha permesso di capire il perché un uomo di quarant’anni scelga di suicidarsi e ci ha ricordato con quale dignità, insieme a sua mamma, la sua fidanzata e a Marco Cappato, ha scelto di rendere pubblica la sua decisione e di perseguirla sino in fondo. È stato dato risalto alla sofferenza, una sofferenza difficile da capire per chi non vive (o ha vissuto) situazioni così estreme. In una società cattolica a corrente alternata, quando cioè fa comodo si strizza l’occhio alla CEI, in altri casi invece si fa ma non si dice, in altri ancora si sceglie di morire combattendo per un diritto come ha fatto Fabiano.
Al processo si è ben percepita la componente di umanità che ha aleggiato su tutta la vicenda, l’amore della mamma Carmen e di Valeria (la sua fidanzata) che gli sono sempre rimaste accanto.
Le immagini lo hanno mostrato sia nel suo letto (ndr, il servizio delle Iene) sia quando era in salute, quando suonava davanti alla folla e trasmetteva vitalità. La descrizione fatta da Marco Cappato di come sarebbe morto Fabo, senza trasgredire le leggi in vigore, è quella di una tortura che sarebbe potuta durare giorni (si dovevano staccare i macchinari, sedarlo e lasciarlo consumare). In questo modo si sarebbero allungate le sofferenze di Fabo ma anche quelle di Carmen e Valeria, le quali, come ha sottolineato il PM, non sarebbero state sedate e avrebbero patito e basta. La decisione così è stata quella di recarsi in Svizzera per il suicidio.
La trasmissione non ha indugiato sulle lacrime e la sofferenza di chi ha dovuto descrivere i fatti nella loro crudezza.
Sarebbe da riproporre in prima serata come opera pedagogica su cosa può ancora fare la tv, il dolore è una cosa seria, non un frame della vita in diretta.
Questo processo sarebbe potuto essere un’ulteriore conquista per i diritti civili, e invece no; siamo, concettualmente, rimasti a discorsi come quelli sulla correttezza della legge 40 sulla fecondazione o alle accuse di omicidio quando Eluana Englaro morì. La dimostrazione l’hanno data il Governo Gentiloni e il PD che si sono ricompattati per difendere una legge del periodo fascista. Ne ha parlato Jacopo Tondelli in modo molto esauriente.
Nella requisitoria, i PM hanno avanzato la richiesta di assoluzione per Cappato perché il fatto non sussiste e hanno chiesto alla Corte d’Assise di inviare alla Corte Costituzionale l’incartamento per decidere se Cappato possa essere giudicato e quindi capire quale dovrà essere il prossimo passo. La richiesta è stata accolta dal giudice.
Ma la pubblica accusa e il Tribunale hanno, soprattutto, riempito di senso parole come volontà, dignità, libertà.
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