Giustizia
Guerra tra poveri tra inquilini proprietari e fisco: serve una scelta politica
La guerra all’evasione fiscale è una guerra santa. Come ogni guerra, però, travolge innocenti ed eccede nell’abuso delle armi. Può essere questa una sintesi metaforica della vicende relative alla disciplina delle sanzioni per la mancata registrazione dei contratti di locazione. Nel corso del 2011, con il d. lgs. 23/2011 attuativo della delega ricevuta in tema di federalismo fiscale, il Governo introdusse una innovativa disciplina sanzionatoria dei contratti di locazione ad uso abitativo “in nero“.
Infatti, a decorrere dalla tardiva registrazione, il contratto sarebbe stato trasformato in un rapporto di locazione di durata quadriennale (rinnovabile per altri quattro anni) ad un canone determinato ex lege nel triplo della rendita catastale. In altre parole, quale che fosse la durata residua del contratto e l’ammontare del canone pattuito tra le parti, a decorrere dalla tardiva registrazione l’inquilino avrebbe goduto di un canone determinato in via legale ed in misura assai più bassa di quella del mercato, il tutto per un nuovo periodo contrattuale. La registrazione tardiva del contratto trasformava dunque il rapporto in qualcosa di totalmente diverso da quello pattuito tra le parti ed a condizioni economiche estremamente vantaggiose per l’inquilino.
Le ragioni di una scelta tanto favorevole per il conduttore e punitiva per il locatore sono facilmente intuibili. Garantendo una disciplina premiale, il legislatore puntava ad incentivare i conduttori a denunciare rapporti contrattuali “in nero” e recuperare alla tassazione ricchezza imponibile sino a quel momento sommersa. Sebbene l’obiettivo fosse condivisibile, lo strumento era del tutto opinabile, oltre che suscettibile di distorsioni. L’incentivo promesso dal legislatore al conduttore per la denuncia del contratto in nero determinava, evidentemente, la scelta dell’inquilino di assumere un comportamento in danno agli interessi del locatore e, peraltro, senza che a quest’ultimo fosse dovuto alcun preavviso o fosse consentito una sorta di ravvedimento operoso.
Di più: la nuova normativa favoriva comportamenti attendisti degli inquilini che, pur obbligati ex lege anch’essi alla registrazione del contratto, potevano opportunisticamente aspettare lo spirare dei termini legali per beneficiare, con la registrazione tardiva, dei vantaggi economici del nuovo rapporto. Tale indirizzo legislativo si poneva però radicalmente in contrasto con l’impianto del codice civile che impone ad entrambe le parti, in qualunque circostanza, di comportarsi in buona fede ed in modo da proteggere l’interesse ed il diritto della controparte alla prestazione.
Discostandosi da tale tradizione, la scelta del legislatore violava gli stessi principi di solidarietà costituzionale di cui l’obbligo di comportarsi secondo buona fede è considerato espressione. L’incostituzionalità della nuova disciplina emergeva anche sotto tale profili. Imponendo al locatore un rapporto contrattuale con durata pluriennale (anche otto anni) e canone in misura legale, la nuova disciplina rappresentava quasi una espropriazione delle facoltà proprietarie e contrastava con la libertà di iniziativa privata riconosciuta dalla carta costituzionale.
Era peraltro dubbio che una simile compressione dei diritti dei proprietari giovasse effettivamente al fisco; infatti, la base imponibile per l’imposta di registro e l’imposta sui redditi dovuta dai locatori sarebbe stata individuata nel canone legale, assai più basso di quello pattuito originariamente dalle parti; la nuova disciplina sanzionatoria finiva così per danneggiare i proprietari, beneficiare molto agli inquilini, ma giovare davvero poco allo stato.
Accanto a tali violazioni sostanziali del dettato costituzionale se ne collocava una di natura più formale: la nuova normativa era stata introdotta dal Governo in violazione dei limiti della delega ricevuta dal Parlamento in materia di federalismo fiscale. Tali profili di censura furono colti da alcuni Tribunali che investirono, nel corso degli anni, la Corte Costituzionale di altrettante questioni di costituzionalità. La Corte si pronunciò nel marzo del 2014 dichiarando l’incostituzionalità della disciplina sanzionatoria per violazione dei limiti della legge delega. Quale conseguenza della declaratoria di incostituzionalità, la disciplina dichiarata illegittima non avrebbe potuto più essere applicata.
Pertanto, i conduttori che ne avevano beneficiato si trovavano tenuti a versare ai proprietari la differenza tra il maggior canone previsto contrattualmente e quello legale. Inoltre, venuto meno il rapporto locativo imposto dal d.lgs. 23/2011, in alcuni casi gli inquilini si trovavano privi di contratto e, dunque, soggetti anche all’obbligo di rilascio immediato dell’immobile. Allo scopo di ovviare alla situazione creatasi in conseguenza della sentenza della Corte, il Governo ed il Parlamento decisero di emanare una clausola di salvaguardia che facesse salvi, fino al 31 dicembre 2015, i rapporti di locazione sorti in forza delle norme dichiarate costituzionali: per effetto della clausola di salvaguardia, i conduttori avrebbero potuto rimanere nella disponibilità degli immobili fino al 31 dicembre 2015 e pretendere di pagare, sino a tale data, solo il “mini canone” determinato dalla legge.
La soluzione escogitata dal legislatore si è rivelata ben presto un pasticcio. Infatti, la Corte Costituzionale è stata da subito investita della questione di costituzionalità relativa alla clausola di salvaguardia che, secondo l’opinione di molti, violava l’art. 136 della Costituzione ed il principio secondo cui il Legislatore non possa adottare atti e provvedimenti diretti a paralizzare gli effetti di una declaratoria di incostituzionalità
Con sentenza del 16 luglio 2015, la Corte Costituzionale si è pronunciata nuovamente, dichiarando l’incostituzionalità della clausola di salvaguardia e del tentativo del legislatore di prorogare, sino al 31 dicembre 2015, gli effetti del d.lgs. 23/2011.
Si ripropone oggi dunque la situazione venutasi a creare nel marzo del 2014: gli inquilini sono tenuti a pagare il conto degli arretrati e, ove il contratto originario sia scaduto, a rilasciare l’immobile. Non sarà facile disciplinare, in via giurisprudenziale o normativa, la situazione che si preannuncia come una guerra tra poveri. Da una parte, stanno i proprietari su cui gravano tasse, spese di manutenzione straordinaria ed oneri finanziari; dall’altro lato, restano gli inquilini che, in questi anni, avranno utilizzato diversamente le risorse finanziarie ora necessarie per ripianare i debiti con i locatori.
Sarebbe forse opportuno un nuovo intervento del Governo che, però, stavolta non potrà scaricare le conseguenze economiche dei suoi errori suoi proprietari o sugli inquilini. Infatti, dalla parte dei proprietari stanno ben due dichiarazioni di incostituzionalità e gli abusi perpetrati dagli inquilini che, pur agendo nel rispetto della legge, hanno denunciato i contratti in nero per godere della disciplina di favore, adottando così un comportamento che, già intuitivamente, è evidentemente sleale. La soluzione preferibile starebbe forse nell’assunzione, da parte dello Stato, dei debiti maturati dagli inquilini che, pur assumendo una condotta sleale nei confronti dei locatori, hanno comunque fatto a loro volta affidamento sulla protezione della legge.
Sarebbe una soluzione giusta, propria di uno Stato che si assume le responsabilità dei propri errori ed intende perseguire la pace sociale.
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