Giustizia
Csm, il vero problema resta lo strapotere delle procure
La velocità con cui si consumano le notizie nel mondo dell’informazione, condizionata dal meccanismo dei social media che porta più all’indignazione che alla riflessione, sta rimuovendo dall’attualità stretta la vicenda dell’inchiesta sulle nomine al Csm.
Se l’interesse più immediato su quanto abbiamo appreso dai giornali è andato scemando, tuttavia ciò rende più facile una riflessione più articolata che prescinda dai nomi e dalle responsabilità personali dei soggetti coinvolti.
Il punto di partenza per una seria riflessione, a mio avviso, è il dettato costituzionale, che da un lato individua nel csm l’organo di autogoverno della magistratura, dall’altro colloca tale organo all’interno di un delicato sistema di equilibri istituzionali, prevedendo che ne facciano parte, oltre ai membri “togati” eletti dagli stessi magistrati, alcuni “laici” eletti dal parlamento in seduta comune (nella misura di un terzo dei componenti), e affidando al presidente della repubblica, la più alta carica dello stato, il compito di presiederne le riunioni.
Con questa previsione il costituente intendeva tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e, insieme, introdurre elementi di controllo sul funzionamento del suo principale organo di autogoverno, affinché non diventasse una sorta di potere irresponsabile o cercasse di attribuirsi compiti ad esso estranei.
Chi ha una certa età ricorderà certamente i forti dissidi tra il csm dell’epoca e l’allora presidente della repubblica Francesco Cossiga che giunse a minacciare di inviare i carabinieri a palazzo Marescialli per impedire la discussione di un ordine del giorno da lui ritenuto al di fuori e al di là delle competenze dell’organo.
Suscita quindi una forte impressione tra chi ha a cuore il corretto equilibrio fra i poteri dello stato e il regolare funzionamento dell’organo di autogoverno della magistratura dover constatare che la politica, anziché rivendicare la propria autonomia e esercitare la dovuta funzione di controllo in ordine alle rispettive prerogative, abbia scelto di adottare scelte di piccolo cabotaggio istituzionale, accontentandosi di sollecitare nomine ritenute più o meno favorevoli o accondiscendenti.
La mancanza di visione, di sensibilità istituzionale che sta dietro a questo approccio finalizzato a conseguire vantaggi spiccioli senza assolvere ai compiti che la Costituzione assegna alla politica, al di là della rilevanza penale della vicenda sulla quale non mi interessa pronunciarmi, è il primo e forse il principale punto critico della vicenda su cui siamo tutti chiamati a riflettere per restituire dignità sia alla politica che alla stessa magistratura.
Ciò premesso, è doverosa una ulteriore riflessione che parta dalla natura delle nomine oggetto dell’indagine in corso. A questo proposito, non dovrebbe sfuggire il fatto che le nomine in questione hanno riguardato non già i prestigiosi incarichi di presidente di tribunale e di corte d’appello, ma gli uffici direttivi delle principali procure, ovvero i “punti chiave” della magistratura requirente.
Questo particolare, più di ogni altro, la dice lunga sulla attuale crisi della giustizia nel nostro paese, dove si parla spesso di separazione delle carriere, di giusto processo, di parità tra accusa e difesa, ma all’atto pratico ci si rende conto che il momento centrale dell’esercizio della giurisdizione, il processo dibattimentale, non interessa davvero a nessuno (forse solo a una parte minoritaria dell’opinione pubblica) e che il vero “potere” che esercita oggi la magistratura (con l’appoggio di organi di stampa e forze politiche giustizialiste) non appartiene a coloro che sono chiamati a giudicare, ma a chi esercita l’azione penale.
A chi interessa l’esito di un processo, quando la vera pena, quella che pone fine a carriere e distrugge le esistenze delle persone, è comminata già nella fase delle indagini, attraverso le misure cautelari, reali e personali, e le “condanne” preventive pronunciate da giornali, televisioni?
Non sfugge, in quest’ottica, il forte condizionamento e il potere elettorale sproporzionato che è stato esercitato in questi anni dalle principali procure (un caso esemplare: l’elezione al Csm dello sconosciuto Gip del tribunale di Milano, Italo Ghitti, evidentemente ricompensato per aver approvato senza battere ciglio ogni richiesta del pool di “Mani Pulite”), nonché il passaggio frequente dalle più importanti cariche in seno all’Anm al Csm alla scdenza del mandato (ultimo esempio, Luca Palamara).
L’ex guardasigilli Claudio Martelli racconta un episodio significativo nel suo libro di memorie “Ricordati di vivere”: presentava davanti all’associazione dei penalisti di Parigi la riforma del codice di procedura penale, con il passaggio al processo accusatorio quando il presidente del barreau parisièn gli chiese se non era preoccupato di attribuire tutto quel potere all’organo dell’accusa, il pubblico ministero.
La storia, giudice impietoso, ha poi dimostrato che quell’autorevole avvocato francese aveva visto lontano. Il nuovo codice di procedura penale del 1988, affascinante nei principi, ha finito per consegnare alle procure – di fatto – un potere rimasto spesso privo di un adeguato controllo e bilanciamento da parte di gip e magistratura giudicante, costringendo le forze liberali e garantiste del paese, in primis l’avvocatura a combattere una serie di battaglie di civiltà giuridica, alcune vinte come il riconoscimento in costituzione dei principi del “giusto processo” altre ancora da combattere fino in fondo come la separazione delle carriere dei magistrati.
Resta quindi un’amarezza di fondo su questa vicenda, da cui è necessario uscire con uno scatto di dignità politica ed istituzionale sia da parte della politica (che deve rendersi consapevole del proprio ruolo all’interno del csm), sia da parte della stessa magistratura che, se non vuole perdere la propria credibilità, non può limitarsi alle sanzioni disciplinari nei confronti dei propri membri coinvolti nello scandalo ma deve recuperare il proprio ruolo costituzionale ed abbandonare definitivamente le condotte di difesa corporativa del proprio potere.
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