Giustizia

Cerasa, ecco perchè è bene sapere che quella coop comprava il vino di D’Alema

31 Marzo 2015

Tipo a Claudio Cerasa, novissimo direttore del Foglio, che mascherandosi da sincero garantista immagina il suo mondo migliore nel quale politici non penalmente rilevabili non debbano comparire nelle intercettazioni per rispetto sacro delle loro vite private, andrebbe segnalato l’ulteriore caso di scuola – dopo quello di Maurizio Lupi – che questa volta ha come soggetto interessato Massimo D’Alema, al quale – appunto – il giudice non imputa nulla. Nel mondo di Claudio Cerasa – lo prendiamo a paradigma di un certo pensiero perché è stabilmente in televisione a diffondere il verbo e dunque meritevole di attenzione – ciò che è uscito dalle carte/intercettazioni di Ischia non dovrebbe comprendere i passi (plurimi) che comprendono D’Alema e che anche a un sincero complottista/giustizialista in realtà non ispirirerebbero granché, ma molto invece raccontano di un “sistema”, nel quale, dall’esterno, si è anche disponibile a riconoscere al leader Massimo il ruolo di vittima.

Il processo criminale che porta questi signori delle cooperative, in combutta con vecchissimi arnesi craxiani e altri magliari di complemento, a “lavorare” per “ottenere”, è una sceneggiatura plastica degna di comparire su testi scolastici per il liceo. Perché ha uno scatto in più rispetto alla corruzione diretta per come la conosciamo, nel senso dell’io ti dò e tu di conseguenza mi dai. In questo caso si lavora sulla benevolenza di soggetti terzi, che spesso nulla sanno di quello che sta accadendo sulla loro testa, ma che per la loro acclarata autorevolezza pubblica vengono per così dire blanditi, vezzeggiati, coccolati attraverso passaggi legalmente corretti ma eticamente molto, molto, dubbi.

Nel caso di D’Alema e di questa inchiesta, lorsignori fanno avere a Italianieuropei, la fondazione presieduta dall’ex presidente del Consiglio, una serie di finanziamenti – “Tre dispositivi di bonifici – raccontano le carte – effettuati da “Cpl” in favore della Fondazione Italianieuropei ciascuno per l’importo di 20mila euro, nonché un ulteriore dispositivo di bonifico per l’importo di 4.800 euro per l’acquisto di 500 libri di D’Alema dal titolo “Non solo euro”. Se non ricordiamo male, non è la prima volta che soggetti che poi si rivelano poco raccomandabili finanziano la Fondazione di Massimo D’Alema e questo pone all’interessato un problema serio di opportunità. L’opportunità, appunto, di una vigilanza più stretta sui suoi caritatevoli finanziatori, il che non significa certo il doversi trasformare in un questurino che ogni volta indaga parallelamente alla magistratura, ma insomma una domandina sul perché una potente cooperativa rossa decida di gettare tre o quattro fiches pesanti sul numero di D’Alema sarebbe utile porsela, se non altro in via cautelativa. Nel caso di D’Alema e dell’inchiesta, si può almeno parlare di leggerezza? Giudicate voi.

Ma per tornare al tema. Secondo il «codice Cerasa» in questa inchiesta il nome di D’Alema non sarebbe dovuto comparire perché il medesimo non è neppure sfiorato dal sospetto e dunque per rispetto alla sua privatezza quelle carte/intercettazioni sarebbero dovute restare chiuse in un cassetto. Ma quelle carte disvelano un modo, un meccanismo, raccontano ai cittadini il perverso rapporto che lega soggetti diversi, illustrano perfettamente la fase di “corteggiamento” indiretto nei confronti di un potente di cui si cerca la benevolenza, sperando in qualche favore futuro, che nel caso di D’Alema nelle carte non compare. Mettono in luce un rapporto tutto interno alla sinistra, dai meccanismi ormai ampiamente riconosciuti eppure ancora in pienissima attività. Come, appunto, il “tenero” tentativo da parte della cooperativa rossa di titillare la parte più estetica del leadr Maximo comprandogli 2000 bottiglie di “Sfide”, la sua gloria rossa in purezza, il suo cabernet franc del cuore.

Queste non sono intercettazioni, non sono carte o carta da stracciare, questo è ancora (purtroppo) il racconto di un Paese. «Un Paese normale», guarda caso proprio il titolo di un libro di Massimo D’Alema di vent’anni fa. Una vita fa.

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