Giustizia

Condannati istigatori all’odio razziale

27 Ottobre 2018

Nel processo per istigazione all’odio e negazione della Shoà svoltosi a Monaco di Baviera nei confronti dei fratelli Alfred e Monika Schaefer è stata pronunciata la sentenza venerdì. Alfred Schaefer (63 anni) è stato condannato a 3 anni e 2 mesi di reclusione con l’arresto immediato (era peraltro già sottoposto a carcere preventivo), una pena di 5 mesi inferiore a quanto richiesto dalla procura. La sorella Monika Schaefer (59 anni) è stata invece condannata a 10 mesi, pure in questo caso la Corte è stata 3 mesi sotto quanto era stato domandato dall’accusa. I giudici hanno escluso nei suoi confronti si potesse applicare la condizionale, ma avendo ella già scontato l’intera pena in regime di carcerazione preventiva ne hanno disposto comunque l’immediato rilascio. I costi processuali sono stati posti a carico degli imputati ed è stato altresì deciso il sequestro di larga parte dell’attrezzatura utilizzata per produrre i diversi video che avevano portato al rinvio a giudizio.

Il Presidente della terza sezione penale Martin Hofmann ha sottolineato che “l’odio rovina l’anima” -citando apertamente Nikolai Nerling, ex insegnate di Berlino sospeso dalla cattedra che si fa chiamare Volkslehrer ed appoggia i condannati, presente in aula- e “può portare anche a peggiori conseguenze”, sottolineando come il collegio giudicante sia rimasto “esterrefatto dai sudici contenuti razzisti” dei video diffusi dai condannati.

La sentenza non è ancora passata in giudicato ed è prevedibile che quantomeno Alfred Schaefer presenterà appello. Egli dovrà affrontare in ogni caso anche altri giudizi per ulteriori episodi di istigazione all’odio e minacce, tra l’altro nel rivolgere le sue osservazioni finali alla corte nel processo appena conclusosi ha pronunciato di nuovo frasi a contenuto razzista che i giudici hanno fatto verbalizzare. Perciò è stata formalmente disposta anche la detenzione preventiva con riferimento al persistente rischio di inquinamento delle prove e di fuga. Tra le sue tesi ispirate ai Protocolli dei Savi di Sion (un falso conclamato della Russia zarista) l’esistenza di un piano per un ordine di dominio mondiale ebraico, che l’Olocausto sia una leggenda costruita dagli ebrei per estorcere denaro ai tedeschi, e persino che il rock ed il movimento hippy siano stati voluti “dalle stesse forze” per corrompere la gioventù. In maggio era stato già condannato ad una multa di 5.000 euro per il tenore di un discorso tenuto a Dresda.

Nel suo appello conclusivo ai giudici Monika Schaefer, che è stata cofondatrice del partito canadese dei verdi e loro candidata tre volte tra il 2006 ed il 2011, ha indicato di valutarsi “una prigioniera politica”, stante che al Consolato canadese sarebbe stato indicato dal Governo di Ottawa di non fare intervenire nessun osservatore al processo. Ma in effetti se così fosse stato si deve supporre che non si vedesse il rischio che in Germania fosse torturata.

Si è poi dipinta come vittima di attacchi ingiustificati e di vessazioni arbitrarie dopo la diffusione dei video per cui è stata rinviata a giudizio, mentre invece ha sottolineato di essere una persona amante della musica e della natura che si è sempre impegnata per la pace. Ha detto che mai avrebbe inteso violare una legge tedesca ma che nessuno l’aveva informata ed essendo cittadina canadese non la conosceva. Ha chiesto scusa se lo ha fatto, ma ha tuttavia anche soggiunto che è “orgogliosa” delle sue radici familiari in Germania e la norma che punisce negare la realtà storica della Shoà le appare “una legge che toglie il respiro e forse dovrebbe essere rotta, per poter sopravvivere come popolo”.

I giudici soffermandosi sulle sue affermazioni hanno però escluso che ella non conoscesse la legge: sia perché era oggetto del video sul processo al negazionista Ernst Zündel cui ella stessa ha rimandato nei titoli del suo filmato per il quale era stata rinviata a giudizio, sia perché ella venne arrestata Monaco in tribunale per assistere al processo per lo stesso reato contro Sylvia Stolz, la ex legale di Zündel. Ora sappiamo che esistono anche persone amanti della musica ed ambientaliste che al contempo aizzano l’odio, ha commentato il Presidente della Corte.
Con due video “Scusami mamma avevo torto sull’Olocausto”, rispettivamente in inglese e tedesco, Alfred Schaefer ha sostenuto che la sorella Monika ha solo chiesto scusa alla memoria dei genitori. In effetti è andata però ben più in là definendolo “la più grande e dannosa menzogna della storia” e che “non c’è stata alcuna camera a gas”.

Nel dare lettura della sentenza il giudice Hofmann ha rimarcato tuttavia che la negazione della Shoà è stato solo un aspetto, ma le condanne sono da ricondurre più in generale alla sistematica rottura della pace sociale perpetrata con effetti duraturi da video messaggi razzisti basati su teorie complottiste e pseudo-scientifiche, realizzati professionalmente, e come i condannati siano apparsi fermi nelle loro idee distorte. A loro discarico ha tuttavia riconosciuto che entrambi hanno confessato le loro responsabilità e che i fatti per cui sono stati giudicati sono da ricondursi ad alcuni anni fa. Ma come già indicato in realtà Alfred Schaefer ha commesso altri reati in aula e dimostrato disprezzo per la Repubblica Federale Tedesca definendo ripetutamente il processo “un’inquisizione”.

Purtroppo, a giudicare dai commenti in calce al filmato favorevole ai due Schaefer diffuso venerdì sera dal sopra citato Nerling, il loro operato ha sempre dei simpatizzanti che li vedono come vittime dell’arbitrio dello Stato; il processo infatti è stato costantemente accompagnato dalla presenza di una ventina di persone nelle quali era riconoscibile fosse sorta dopo 21 udienze una dinamica di gruppo. Un nucleo rafforzato venerdì anche dalla presenza di un noto pregiudicato neonazista e di un anziano simpatizzante della NPD.

Alfred Schaefer, decisamente invasato nelle sue distorte convinzioni, ha affermato che alcune parole come Olocausto esisterebbero solo per codificare le persone e sottometterle, ma ha lanciato a sua volta nell’aula termini come slogan: “parassiti”, “invasori”, “cambio del paradigma” o l’inglese “plausible liability”. Quest’ultimo per significare che dopo aver visto i suoi filmati durante il processo nessuno potrà dire di non sapere come stanno le cose e la verità -la sua verità naturalmente- anche se la Corte non ha voluto prendere visione degli ultimi tre (peraltro non oggetto di rinvio a giudizio) comportandosi come “un critico che non volesse leggere la fine del libro”. Ed era anche una neppure non troppo velata minaccia ai giudici “il Tribunale dev’essere inteso come luogo di giustizia, se copre le bugie la Corte perde di credibilità e negli occhi della gente ha una durata in scadenza”.

I magistrati lo hanno condannato per avere istigato 12 volte all’odio, impiegando 4 volte anche simboli o gesti riconducibili al vietato partito nazista e la sorella per altri 4 atti di incitamento delle masse. Il paragrafo 130 del codice penale tedesco che punisce quei reati non impone, come entrambi i rei ed i loro difensori avrebbero voluto sostenere, un divieto a pensare, né tantomeno a dibattere sulla Shoà, semmai il contrario un invito a riflettere che non si può usare la libertà di opinione come un megafono per tesi denigratorie e che il dibattito storico è da fare con serietà e senza slogan razzisti veicolati su You Tube.

© Riproduzione riservata

Immagine di copertina: Gli imputati in tribunale, dettaglio foto © Anne Wild per gentile concessione.

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