Giustizia
Caso Ilardo: in Commissione Antimafia audizione della figlia Luana
Il 16 novembre alle 20, a Palazzo San Macuto, la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali anche straniere presieduta dal dottor Nicola Morra, presidente pro-tempore, ha ascoltato Luana Ilardo, figlia di Luigi Ilardo, confidente del ROS e già capo mafia della provincia di Caltanissetta ucciso il 10 maggio 1996.
Una convocazione, a dir poco, bizzarra. Non si ravvisano le motivazioni di tale audizione se non quelle relative alla recente pubblicazione di un libro, che l’audita ha realizzato con il contributo di Anna Vinci che non risulta essere il risultato di un’inchiesta giornalistica che ha portato alla luce fatti mai emersi, nuovi testimoni o possibili riaperture delle indagini relativamente alla morte dell’Ilardo la cui verità processuale è cristallizzata nella sentenza della Corte Suprema di Cassazione dell’1 ottobre 2020 e depositata in Cancelleria l’8 marzo 2021 che ha rigettato i ricorsi presentati e ha confermato le condanne nei confronti di Giuseppe “Piddu” Madonia, capomafia della famiglia di Caltanissetta, Vincenzo Santapaola, figlio del boss scomparso Turi, Maurizio Zuccaro e Benedetto Cocimano già condannati in primo grado, nel marzo del 2017, e in secondo grado dalla Corte d’Assise d’Appello.
Una bizzarria? Forse, se non fosse che l’incipit della propalazione abbia fatto gelare il sangue nelle vene. In effetti era diverso tempo, forse mai in Commissione Antimafia, che non si sosteneva la tesi di una vecchia mafia buona e che ha fatto anche cose buone e di una mafia più cattiva, quella dei Corleonesi e derivati. Eppure, potrà sembrare strano, desunte proprio dalle registrazioni che il colonnello Riccio ha fatto, sono state citate letteralmente le parole dell’Ilardo che sosteneva, dichiarandolo, che «alcune persone si sono macchiate facendo cadere nel nulla tutto quello che di buono c’era in questa organizzazione. “Cosa Nostra” oggi è diventata una macchina solamente di morte, di tragedie e di tante menzogne».
Ritengo che questa affermazione, anche se oggi postuma, dell’Ilardo sia un’offesa a tutti i familiari delle vittime innocenti delle mafie che, è necessario ricordarlo, sono state uccise, vittime della lunga mattanza con cui la compagine mafiosa ha inferto alla Sicilia e non solo sin dalla fine del XIX° secolo, mattanza iniziata con l’omicidio di Emanuele Notarbartolo avvenuto il 1 febbraio 1893 e che è continuata uccidendo, spesso impunemente, uomini, donne e bambini, nonostante il loro deviato concerto di onore.
Scopriamo poi, come dichiarato in Commissione Antimafia, che a quei tempi “era abitudine” nascondere latitanti in famiglie insospettabili e rispettabili. Abitudine per chi? Ancora una volta questa affermazione danneggia sia la verità sia la dignità dei siciliani tutti, che non possono essere associati tramite il vecchio stereotipo “siciliano=mafia”. Forse questo è vero per le famiglie organiche o contigue alla compagine mafiosa non per i siciliani onesti.
Il lungo racconto proposto dall’audita ha ripercorso le fasi dell’infanzia e della formazione criminale dell’Ilardo che, sempre secondo quando trascritto, non è mai stato condannato per fatti di sangue. Il colonnello Riccio, come da lui stesso dichiarato al processo di primo grado per la morte di Luigi Ilardo, cita l’incontro avvenuto a Roma il 2 maggio 1996 in cui l’Ilardo si autoaccusò dell’omicidio di Giuseppe Calderone, indicando che «presenti all’incontro erano il dott. Gian Carlo Caselli e la dott.ssa Principato, magistrati, entrambi all’epoca dei fatti in servizio, il primo con funzioni direttive, presso la Procura della Repubblica di Palermo, e il dott. Tinebra, che era invece in servizio presso la Procura di Caltanissetta; IIardo, che secondo il Riccio aveva in modo plateale scelto il primo come interlocutore, aveva immediatamente riferito dell’incontro che aveva avuto a Mezzojuso con Bernardo Provenzano. Poi aveva ripercorso la sua biografia criminale: il suo ingresso in “cosa nostra”, l’omicidio di Francesco Madonia, padre di Giuseppe, le attività che erano seguite a tale vicenda delittuosa, gli omicidi che aveva commesso con il Chisena e, in particolare, quello di Calderone (Giuseppe, ndr), riferendo altresì del ruolo di artificiere che Rampulla, che lui conosceva già dal passato e che era stato esponente della destra extra parlamentare, aveva in “cosa nostra” ». Ulteriore riscontro del coinvolgimento dell’Ilardo nell’omicidio di Giuseppe Calderone arriva, inoltre, dal fratello, Antonino Calderone che, interrogato dal dottor Giovanni Falcone, indica che «il secondo fatto grave a cui accennavo si riferisce alla presenza, due giorni prima che mio fratello scoprisse la bomba, di una macchina a bordo della quale c’era un certo ILARDO, cugino di MADONIA Giuseppe, e del futuro cognato di ILARDO, un calabrese che venne ucciso in prigione intorno al 1980. (trattasi di Gianni Chisena, al tempo fidanzato di Clementina Ilardo, sorella di Luigi, ndr.) Vidi quell’auto nei dintorni di casa nostra, in campagna. Parlai a mio fratello della presenza di quella macchina con quei due a bordo e mio fratello ne informò SANTAPAOLA Nitto. Questi gli diede al riguardo una risposta niente affatto convincente». Inoltre, come riferito dal pentito Ciro Vara, Nitto Santapaola s’incontrò con Ilardo al rientro dall’omicidio per relazionare, confermando la sua complicità nell’agguato.
E sempre a proposito del Chisena, la sua morte non è affatto uno dei “misteri italiani” come l’audita ha voluto far intendere con le sue parole. Il 27 aprile 1981, il Chisena morì accoltellto a seguito di una rissa che si scatenò nel carcere di Fossombrone (LT), in cui era detenuto, tra appartenenti della criminalità organizzata di stampo mafioso napoletani e siciliani. Per l’ omicidio furono colpiti da ordine di cattura anche detenuti appartenenti alla criminalità eversiva di sinistra.
In Commissione Antimafia si afferma, ancora, che «Il suo contributo (dell’Ilardo, ndr) non abbia mai avuto un solo margine di errore e di inesattezza per tutta la sua durata» ma, purtroppo questa affermazione è smentita dalla relazione della Direzione Nazionale Antimafia del 13 settembre 1995 indirizzata alla Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Nella citata relazione si legge che «peraltro, sui pochissimi spunti d’indagine, offerti da “Oriente” (nome in codice dell’Ilardo, ndr) e caratterizzati da un minimo di concretezza, venivano avviate approfondite attività investigative, autorizzate da codesta A.G. (intercettazioni telefoniche, servizi di osservazioni e pedinamenti) e di riscontro che, comunque, non sortivano alcun esito apprezzabile. In particolare, sull’abbrivio della certezza più volte manifestata dalla fonte e della conseguente aspettativa, rimasta delusa, di un incontro tra la fonte medesima e il PROVENZANO, per l’asserita indispensabile necessità di trattare al massimo livello questioni di importanza fondamentale per la “famiglia”, veniva, dall’Ufficio, predisposto, senza che venisse mai decisamente attivato, un complesso meccanismo d’intervento, per la realizzazione del latitante, con previsione d’impiego di reparti speciali, elicotteri attrezzati per il volo notturno e sofisticate apparecchiature di trasmissione a distanza di impulsi radio-satellitari. Progressivamente, però, il flusso d’informazioni provenienti dalla fonte per il tramite del RICCIO andava scemando sino ad una effettiva e sostanziale posizione di silenzio e di stallo che perdura, a tutt’oggi, da circa quattro mesi».
Parte della formazione criminale dell’Ilardo avviene al fianco proprio del già citato Gianni Chisena, personaggio raccomandato da Luciano Liggio e del quale l’Ilardo sarà anche l’autista. Chisena sembra fosse vicino agli ambienti dei servizi segreti deviati, dell’eversione e della massoneria. In qualità di autista, l’Ilardo dichiara di averlo accompagnato in alcune occasioni in cui il Chisena avrebbe incontrato persone «non di cosa nostra» che si muovevano con la «classica auto ministeriale». Di fatto, l’Ilardo fu arrestato nel 1982, come raccontato in Commissione Antimafia, per «sequestro di persona e traffico d’armi» oltre che per «appartenenza associazione mafiosa famiglia di Caltanissetta» e fu scarcerato nel gennaio del 1994 per sospensione della pena (non per averla estinta) data la sua disponibilità a diventare informatore del colonnello Riccio.
Purtroppo un’ulteriore inesattezza costella il lungo racconto dell’audita che ha dichiarato che suo padre «trascorse molti anni al 41 bis» quando, è notorio, che, seppur la disposizione venne introdotta dalla cosiddetta legge Gozzini, che modificò la legge 26 luglio 1975, n. 354, era in origine applicabile solo a casi di emergenza interne alle carceri, secondo il testo: “In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto”. In seguito nel 1992, dopo la strage di Capaci in cui perse la vita Giovanni Falcone, all’articolo si aggiunse un secondo comma disposto con il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (cosiddetto Decreto antimafia Martelli-Scotti), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356. Ma solo con la nuova disposizione, in presenza di “gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”, si consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere le garanzie e gli istituti dell’ordinamento penitenziario, per applicare “le restrizioni necessarie” nei confronti dei detenuti per mafia, con l’obiettivo di impedire il passaggio di ordini e comunicazioni tra i criminali in carcere e le loro organizzazioni sul territorio. Non si può quindi escludere che, a meno che non avesse tenuto in carcere un atteggiamento violento mirante a rivolte o altre situazioni di emergenza, l’Ilardo sia stato sottoposto al 41 bis solo per poco meno di un anno.
Più volte, nell’audizione, l’audita ha definito l’Ilardo un «infiltrato» ma questa definizione è in netto contrasto con il concetto stesso di infiltrato, figura peraltro normata dalla vigente legislazione e che in genere identifica un estraneo al mondo criminale in cui si troverà ad agire, perché in realtà, al momento di uscita dal carcere l’Ilardo era ancora organico alla associazione mafiosa e quindi può, e deve, essere definito un informatore o, tutt’al più una spia. A qualcuno la parola spia potrà sembrare avere un’accezione negativa ma, in realtà, lo ha solo per gli appartenenti alle compagini criminali.
Relativamente, invece, all’accellerazione della decisione di uccidere l’Ilardo, sempre nel primo grado del processo contro Madonia, si legge che «dalla congiunta valutazione degli elementi acquisiti in atti si giunge alle seguenti conclusioni:
a) dopo il 31 ottobre 1995 – data alla quale non si era ancora diffuso alcun sospetto sull’Ilardo nell’ambiente criminale, tanto che lo stesso incontrava Provenzano a Mezzojuso – erano giunte al Provenzano notizie circa il ruolo di informatore che il predetto stava svolgendo. Il Provenzano ne aveva quindi deciso l’uccisione, chiedendo al Giuffrè di occuparsene;
b) nel medesimo periodo, missive anonime, giunte ad autorità e soggetti privati, accusavano Ilardo di “mire espansionistiche” (v. dichiarazioni del Riccio); Vaccaro Lorenzo diveniva esclusivo referente di cosa nostra nissena per le altre province (V. dichiarazioni di Vara, Giuffrè e Di Raimondo) e Madonia chiedeva l’eliminazione delPIlardo, che era stato nel frattempo isolato all’interno della compagine criminale di appartenenza e di fatto destituito dal ruolo di rappresentante provinciale (come ha affermato di Raimondo Natale per averlo appreso da Tusa Francesco e come si desume altresì dalle dichiarazioni di Vara e da quanto riferito dal Riccio in ordine all’inutilmente atteso secondo incontro di Ilardo con Provenzano; significativo è anche l’esame dei tabulati del traffico telefonico sulle utenze in uso all’Ilardo che segnano un rallentamento e poi, verso il marzo del ’96, una cessazione di contatti sia con Madonia Maria Stella che con i Tusa );
c) la deliberazione omicidiaria, come sovente accade in ambito malavitoso, era stata accompagnata da accuse di gravità tale da ingenerare malanimo tra i consociati nei confronti della vittima, sulla quale circolavano ormai nell’ambiente criminale, soprattutto catanese, voci allarmanti;
d) l’Ilardo era stato ucciso a Catania, con una decisa accelerazione del progetto omicidiario proprio in coincidenza con la decisione di intraprendere un percorso collaborativo ufficiale, prima che Giuffrè potesse portare a termine l’incarico ricevuto dal Provenzano e che Brusca ricevesse da quest’ultimo risposta in relazione ai dubbi sul progetto omicidiario comunicatogli da Quattroluni;
e) a recepire prontamente il mandato omicidiario, del quale erano stati investiti anche il gruppo di Monte Po, capeggiato dal Quattroluni, e, personalmente, il La Causa, era stato Santapaola Vincenzo, che lo aveva trasmesso allo Zuccaro;
f) quest’ultimo aveva curato e coordinato la fase organizzativa deiragguato (acquisizione di notizie sulla vittima, controllo dei suoi movimenti, predisposizione di uomini e mezzi per l’esecuzione dell’ agguato) ed aveva ordinato a componenti della cellula criminale che a lui faceva capo di procedervi;
g) nelle fasi organizzative era stato coinvolto anche il gruppo di Monte Po (sul punto le dichiarazioni del La Causa e del Brusca si riscontrano reciprocamente. Il coinvolgimento del Quattroluni era, peraltro, già emerso, nel procedimento penale Grande Oriente, nel quale non era coinvolto il La Causa, dalle parole del collaborante Chiavetta Salvatore, che era stato prima autista di Vito Licciardello per poi divenire, dopo la morte di quest’ultimo e prima di essere arrestato il 26.6.98, autista e factotum dell’Intelisano. Lo stesso riferiva di che l’ordine di uccidere Ilardo era stato interprovinciale ed era stato giunto anche al gruppo di Monte Po, al quale apparteneva, e che erano state organizzate più riunioni per discutere della questione, soprattutto a seguito delle rapine agli autotrasportatori che arrecavano disturbo ad imprese protette: pp. 359 – 371 della sentenza del Tribunale di Gela, che, per esigenze di sintesi, devono intendersi qui richiamate);
h) malgrado la vittima fosse un soggetto di rilievo nel panorama criminale e fosse diretto cugino di Giuseppe Madonia, dall’episodio criminoso non era scaturita alcuna alterazione dei rapporti tra la famiglia nissena e “cosa nostra” etnea (v. Barbieri; significativi sono anche gli esiti del procedimento Grande Oriente, che offrono contezza della prosecuzione di tali rapporti di alleanza );
i) come si evince dalle sentenze acquisite in atti, emesse all’esito del procedimento penale denominato “Grande Oriente, nei primi mesi del ’97 i familiari di Madonia si erano trovati costretti a spiegare a Giovanni Ilardo le reali ragioni del crimine e, aH’uccisione di Vaccaro e Carruba, esponenti della famiglia nissena avevano creduto che responsabili del crimine potessero essere gli “ex Tigna”, che non avevano accettato l’omicidio deirilardo, avendolo percepito come atto aggressivo anche contro di loro (ciò che conferma che gli “ex tigna”, gruppo al quale apparteneva il Cosenza, erano a conoscenza della provenienza del crimine)».
Ma veniamo a quello che è sembrato essere il punto cruciale dell’audizione, ossia la mancata cattura di Bernardo Provenzano latitante in Mezzojuso. Come già scritto su questa testata, in un articolo in cui ho ricostruito, tramite gli atti e le RDS relative, la giornata del 31 ottobre 1995, il racconto dell’audita rappresenta un punto di vista parziale e confutato dalle stesse informative redatte, e firmate, dal Riccio stesso.
L’organizzazione dell’incontro ci è svelata dal Riccio il quale, nell’informativa “Grande Oriente” scrive che «la sera del 29 Ottobre 1995, lo scrivente veniva contattato telefonicamente dalla fonte che gli faceva comprendere di avere incontrato il FERRO Salvatore, il quale gli aveva dato appuntamento per le prime ore del Martedì 31.10.1995 al bivio di Mezzojuso, unitamente ed al VACCARO Lorenzo. Consigliava, pertanto, di raggiungerlo al più presto in quanto l’incontro poteva avere importanti sviluppi anche in direzione di PROVENZANO. Lo scrivente, rappresentata superiormente l’esigenza, si recava in Sicilia e la sera del 30 ottobre aveva modo di incontrare il confidente. La fonte gli confermava quanto già detto, ritenendo che l’appuntamento era propedeutico ad incontrare il PROVENZANO».
Le stesse parole del Riccio ci fanno ben capire che non c’era nessuna garanzia non solo di trovare in quel di Mezzojuso il Provenzano ma anche che questo incontro potesse essere l’occasione per la cattura del Provenzano stesso. Rispetto alla “messa in sicurezza” della fonte, Riccio spiega che «lo scrivente faceva presente (all’Ilardo, ndr) che con tutta probabilità sarebbe stato possibile solo un servizio di pedinamento e, su richiesta dalla fonte, per non pregiudicarne l’incolumità, il servizio di O.C.P. non sarebbe stato proseguito ad oltranza se si fosse riscontrata attività di contropedinamento o di verifica da parte dei mafiosi nel timore di essere seguiti. La fonte dal canto suo avrebbe creato con il PROVENZANO i presupposti di un successivo incontro dove avrebbe potuto sfruttare strumenti tecnologici per facilitarne il suo pedinamento e rintraccio a distanza. Nel frattempo, come sempre, veniva istruito a cogliere ogni particolare utile sia nelle precauzioni adottate dai favoreggiatori del PROVENZANO che dati utili alla localizzazione del luogo di incontro ed alla identificazione dei vari personaggi che avrebbe incontrato».
Le modalità decise dal Riccio in accordo, e su richiesta, dell’Ilardo per l’incontro del 31 ottobre 1995 sono altresì confermate dal Mori nelle dichiarazioni spontanee rese dal Generale Mori il 7 giugno 2013, nel corso del procedimento che vedeva imputato, oltre allo stesso Generale Mori anche il Colonnello Mario Obinu, il quale afferma che «il 30 ottobre 1995, Riccio si presentò al ROS comunicandomi che la sera prima la sua fonte, denominata “Oriente”, da lui gestita a lungo e positivamente durante il periodo di permanenza alla DIA, lo aveva informato di essere stato contattato da Ferro Salvatore e Vaccaro Lorenzo, noti esponenti mafiosi, rispettivamente dell’agrigentino e del nisseno, che l’avevano convocata per un appuntamento, fissato per le prime ore dell’indomani 31.10.1995, presso il bivio di Mezzojuso, sulla strada di scorrimento veloce Palermo – Agrigento».
Le azioni che furono intraprese per quel 31 ottobre 1995 si evincono, oltre che da quanto scritto dal Riccio anche dalle dichiarazioni di Mori che dichiara «nel corso di una riunione estemporaneamente indetta, alla luce delle indicazioni disponibili, malgrado la sostanziale incertezza su partecipanti, terreno e modalità dell’incontro – fattori questi determinanti ai fini dell’efficace adozione di una qualsivoglia scelta operativa – preliminarmente mi orientai sull’ipotesi di approntare un dispositivo che potesse eventualmente procedere al pedinamento dell’Ilardo e dei suoi accompagnatori, dal luogo dell’appuntamento sino al successivo intervento, qualora in una delle fasi del servizio si fosse riscontrata la presenza del Provenzano. Riccio, però, si mostrò decisamente contrario a tale soluzione, chiedendo un tipo di servizio mirato all’esclusiva documentazione dell’incontro al bivio di Mezzojuso, mediante l’osservazione a distanza dell’evento e la sua ripresa fotografica. Ciò anche in relazione all’indeterminatezza dei dati disponibili, con particolare riferimento alla località teatro dell’ipotizzato incontro ed alle modalità con cui il contatto si sarebbe potuto sviluppare. Tale soluzione, sollecitata a detta di Riccio anche dall’Ilardo, sarebbe servita a non fare sorgere sospetti sulla fonte, permettendogli, in prospettiva, di acquisire la piena fiducia degli interlocutori» ma e anche nell’informativa “Grande Oriente” a firma del colonnello Riccio in cui si legge che «dati i tempi ristretti di preavviso e non essendo pronto il materiale tecnico idoneo a garantire la cattura del latitante, in considerazione anche che l’incontro sarebbe avvenuto in territorio sconosciuto, in quanto in quel periodo il Provenzano si era allontanato da Bagheria, si decideva solo di pedinare il confidente. Servizio che veniva sospeso, allorquando, ci si accorgeva che i mafiosi, che proteggevano il latitante, stavano attuando manovre tese a verificare la presenza di eventuali servizi di pedinamento».
Ulteriore conferma dell’interruzione del servizio di pedinamento e della dinamica della giornata arriva dalla “Relazione di servizio del 31.10.1995” del ROS redatta dal colonnello Riccio in cui si legge che «lo scrivente Ten. Colonnello RICCIO Michele, nelle prime ore della mattina del 31 ottobre 1995, si recava, con personale della Sezione Anticrimine di Caltanissetta, messogli alle sue dipendenze, presso il bivio di Mezzojuso, sito sullo scorrimento veloce Palermo – Agrigento. Lo scopo del servizio era quello di verificare se effettivamente si realizzasse quanto segnalato il giorno prima dalla “fonte”. Il confidente aveva riferito che si sarebbe dovuto incontrare FERRO Salvatore e VACCARO Lorenzo, per effettuare, probabilmente, un appuntamento con PROVENZANO Bernardo».
A proposito delle scelte operate relatrivamente all’incontro del 31 ottobre 1995 nella sentenza di primo grado emessa nei confronti di Madonia per l’omicidio di Ilardo si legge «che era tuttavia necessario che questo primo incontro dell’lardo con Provenzano servisse a porre le basi per un successivo incontro, poiché non c’era la possibilità di organizzare tempestivamente l’intervento volto alla cattura del latitante; rinvio che il Riccio ha ammesso di avere accettato per evitare che la cattura avvenisse in presenza di Ilardo».
Per il servizio per il 31 ottobre 1995 veniva quindi predisposta «una aliquota di osservazione fissa, composto da due militari, dotati di attrezzatura fotografica» oltre a «un dispositivo dinamico, posto più lontano, pronto ad intervenire se si realizzavano le condizioni necessarie per effettuare un pedinamento senza che ne venisse pregiudicato l’esito e di conseguenza pregiudicata la tutela della “fonte” la cui identità era nota solo allo scrivente».
Lo svolgimento del servizio, sempre sulla base di quanto scritto dal colonnello Riccio nella succitata Relazione di Servizio fu il seguente:
«Il servizio aveva inizio alle ore 5,00 del 31 ottobre 1995 ed aveva il seguente esito:
– alle h. 7.55 giungevano sul luogo di interesse (bivio di Mezzojuso) due autovetture, una Fiat Uno tg. CL 17671O ed un fuoristrada Suzuki tg. SR 335003.
Dalle macchine scendevano due persone, in particolare dal fuoristrada scendeva una persona anziana mentre dalla Fiat Uno una persona giovane, le quali assumevano posizione di attesa su una stradina sopra lo scorrimento, di fronte al bivio di interesse. Le due autovetture, condotte da altre persone, si allontanavano m direzione di Agrigento;
– alle h. 8.05 giungeva un’autovettura Ford Escort, vecchio tipo, tg. PA, di color scuro, della quale non si riusciva a rilevare compiutamente il numero di targa. L’autovettura, proveniente da altra stradina di campagna, raggiungeva le due persone in attesa e, prelevatele, si immetteva sullo scorrimento veloce in direzione di Agrigento;
– non veniva eseguito il pedinamento poiché si riteneva che vi fossero in atto tecniche di contro pedinamento, di fatti nella zona d’interesse erano presenti più macchine tra le quali una Lancia Prisma, tg. EN, di colore verde scuro, la cui targa non veniva rilevata, che, proveniente dallo scorrimento veloce direzione Agrigento, si fermava in mezzo al bivio;
– alle h. 8.20 ritornava la Ford Escort che si fermava vicino al conducente della Lancia Prisma e dopo qualche minuto entrambi riprendevano lo scorrimento veloce in direzione Agrigento;
– alle h. 8.30 venivano notate parcheggiate in un area di servizio ESSO, prossima al bivio di Mezzojuso, in direzione Agrigento, la Fiat Uno ed il Fuoristrada Suzuki in attesa;
– alle h. 10.00 veniva terminato il servizio».
Anche relativamente all’incontro tra il Riccio e il dottor Pignatone, quanto riportato dall’audita non è assolutamente preciso ed è in contrasto con quanto scritto dal Pignatone stesso in un suo appunto datato 1 novembre 1995 e relativo alle comunicazioni tra lui e il colonnello Riccio, si apprende che ha incontrato «RICCIO in ufficio verso le 13 del 1 novembre 1995 (il giorno successivo all’incontro, ndr). Mi ha detto di non essersi ancora incontrato con la “fonte” che gli aveva fatto capire per telefono che si era incontrata con GRECO Nicola su richiesta di quest’ultimo; che PROVENZANO si è spostato da Bagheria; che la “fonte” lo incontrerà a breve e che la cattura di Provenzano potrà quindi avvenire, senza serie difficoltà operative, entro un mese e comunque prima di Natale (…) si è impegnato a farmi sapere domani (2 novembre) l’esito dell’incontro che avrà stasera con la “fonte”».
A proposito, invece, del secondo incontro tra l’Ilardo e il Provenzano, ancora una volta quanto riportato dall’audita è ssolutamente discordante anche con quanto scritto dal Riccio nella già citata informativa “Grande Oriente” nella quale si evince che il “famoso” secondo incontro con il Provenzano non fu una richiesta del Mori o del Provenzano, come suggerito dall’audita, ma faceva parte della strategia concordata dal Riccio e dall’Ilardo nella giornata precedente al primo incontro. Il possibile secondo incontro, quello in cui si sarebbe potuto effettuare un’azione repressiva che avrebbe generare l’arresto di Bernardo Provenzano, di fatto non c’è mai stato non per volontà del ROS tantomeno del Riccio. Dissidi interni alla “famiglia” Madonia, cui l’Ilardo apparteneva, tennero bloccata questa possibilità tant’è che il Riccio scrive che «in data 2 aprile 1996, lo scrivente veniva contattato, telefonicamente, dalla fonte che riferiva che:
– i rapporti con la moglie di MADONIA si erano completamente rasserenati e che non vedeva più difficoltà nell’ottenere l’incontro con il PROVENZANO. Era inoltre in attesa di conoscere la data dell’incontro con gli EMMANUELO, che indicava approssimativamente o per sabato 6 aprile 1996 o nei giorni immediatamente dopo Pasqua;
– in “cosa nostra” perdurava quell’atmosfera cupa che preannunciava il verificarsi di grandi sconvolgimenti, ma di questi aspetti, come di quelli politici, preferiva rimandarli in un colloquio riservato».
Ma perché era così importante catturare il latitante Bernardo Provenzano? Ovviamente per il ROS era importante per sferrare un colpo mortale alla compagine mafiosa ma per l’Ilardo è stato solo senso di giustizia e di legalità? Il suo continuo allontanare il momento della collaborazione formale, cui fu praticamente costretto dal Riccio, nascondeva forse altro fine? Di certo c’è solo che, come si legge in un’agenzia di Adnkronos datata 5 ottobre 1992, c’è «una taglia sul capo di Totò Riina, Bernardo Provenzano, Nitto Santapaola, Umberto Ammaturo e gli altri superlatitanti. Centinaia di milioni, “ricompense” che potrebbero avvicinarsi anche al miliardo per chi fornirà agli investigatori informazioni che permettano di scovare i “capi dei capi” di mafia, ‘ndrangheta e camorra da anni uccel di bosco. Premi di decine di milioni, invece, per chi contribuirà alla cattura di 230 personaggi di secondo piano del crimine organizzato, classificati ugualmente come pericolosi latitanti. Complessivamente 250 persone, fra le quali i venti super-ricercati. Lo ha RESO NOTO, in un’intervista all’Adnkronos, il prefetto Luigi Rossi, direttore della Criminalpol. “Non si tratta di vere e proprie taglie – spiega – certamente però sono previste delle ricompense finanziarie adeguate per gli informatori che forniscano elementi utili per la cattura dei latitanti. I cosiddetti supericercati (sempre venti visto che la lista è stata aggiornata dopo i recenti arresti) e altri 230 personaggi ugualmente di spicco anche se di minore importanza”».
Nella sentenza del procedimento contro Mori e Ubino si legge che l’Ilardo «chiedeva aggiornamenti sulla indagine in quanto contava sul premio per aver contribuito all’arresto del pericolosissimo latitante (“RICCIO: […] perché io gli chiedevo avete messo il telefono sotto controllo? Stai tranquillo che è sotto controllo, avete sentito quello è l’autista Giovanni è quello che accompagna e fa gli appuntamenti, per cui è utile avete individuato la macchina, non ti preoccupare stiamo facendo tutto. Le ripeto ho avuto la sensazione, per un certo periodo di tempo, che loro volessero dire che le notizie di Ilardo non erano tanto importanti, ma che vi erano giunte tanto è vero mi perdoni l’inciso, non per essere confusionario, ma per dare anche al meglio la spiegazione, un giorno Ilardo… De Caprio mi disse che anche un suo uomo, che lui stava controllando, era andato a Mezzojuso per cui ebbi la sensazione che già si stavano preparando, che per altre strade erano arrivati anche loro a Mezzojuso, per cui io vivevo di quello che loro mi dicevano. E mi trovavo, le ripeto, in difficoltà con Ilardo perché sperava anche perché auspicava anche un premio per dire la cattura di Provenzano sicuramente gli avrebbe portato un premio consistente per sistemare la sua famiglia, e poi andarsene… quelli che non l’avrebbero seguito nel programma di protezione e mi chiedeva costantemente mi scusi ma lei l’ha visto, c’è novità, si vedono ancora, io non sapevo cosa rispondere, cioè… »
Poteva essere quindi la miliardaria taglia che pendeva sul capo di Provenzano la necessità di tardare l’inizio della collaborazione al fine di poterlo catturare con lo status di “confidente”?
Nomi dei politici nascosti? Risulta evidente che l’Ilardo non fece mai nomi dei politici, perlomeno durante la fase di verbalizzazione delle informazioni se non in alcune farneticanti parti che rappresentavano una sua sensazione e mai una certezza, ma non si può escludere che, colloquialmente, ne abbia parlato con il Riccio ma di queste non esiste verbalizzazione anche per il modus-operandi dello stesso Riccio nella gestione del confidente che ha sempre voluto, anche per volontà dello Ilardo, personalmente. A tal proposito si ricorda che nella relazione della Direzione Nazionale Antimafia del 13 settembre 1995, a firma dell’allora Capo del II Reparto dottor Antonio Pappalardo e indirizzata alla Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo il Riccio “dopo reiterate richieste in questo senso ed a conclusione di una serie di tentativi rimasti in un primo tempo vanificati da asserite difficoltà a mettersi in contatto con “Oriente”, in data 7 settembre 1995 produceva una relazione di servizio, che si allega, con la quale riferiva dell’assoluta indisponibilità della fonte fiduciaria a stabilire contatti confidenziali con altri che non fosse lo stesso Riccio».
Altra inesattezza è quella relativa alla dichiarata, sempre dall’audita, correlazione tra l’incontro tra il Riccio e il dottor Marino che viene indicata come causa dell’arresto del Riccio. Ricordiamo che l’indagine che riguardava l’operato del Riccio iniziò nel 1997 con i pm Anna Canepa e Andrea Canciani ed è solo casualità temporale che, dopo l’incontro con il dottor Marino, il Riccio fu arrestato, visto che le indagini erano già iniziate anche perchè altrimenti non sarebbe maturata la decisione di arrestarlo.
Ancora una grande imprecisione dell’audita è stata quella relativa al fatto che ha lamentato, sempre in Commissione Antimafia, di non essere mai stata ascoltata quando è agli atti che fu sentita all’udienza del 12 giugno 2015 del processo di primo grado contro Madonia per l’omicidio del padre, Luigi Ilardo.
Sempre nel sopracitato procedimento, inoltre, si svela il mistero della cassaforte vuotata nell’abitazione dell’Ilardo sia attraverso le dichiarazioni di Concetta Strano, moglie dell’Ilardo che dichiara «Con riferimento al furto che avevano subito poco tempo prima che suo marito venisse ucciso, la teste ha precisato che era avvenuto durante un fine settimana che avevano trascorso in campagna, mentre a casa erano rimaste solo le due figlie di Ilardo, Luana e Francesca, il padre, affetto da sordità, e la badante di quest’ultimo. Né la porta di casa né la cassaforte, la cui chiave risultava ancora regolarmente custodita a casa, erano state scassinate e non sapeva se suo marito custodisse anche documenti in cassaforte. I gioielli non erano stati mai più ritrovati. Lei aveva ritenuto di riconoscerne alcuni fra quelli rinvenuti in possesso di Giovanni Brusca, mostrati in televisione allorché questi era stato tratto in arresto (soprattutto due collane le erano sembrate molto simili a quelle ricevute in dono per la nascita dei gemelli), ma, quando aveva avuto modo di visionarli, non era stata certa che fossero gli stessi» sia dalla figlia Luana che ebbe a dichiarare che «i ladri erano infatti entrati senza forzare la porta e avevano aperto la cassaforte con la chiave che egli era solito tenere in una ciotolina d’argento poggiata su un mobile della camera da letto, provvedendo poi anche a richiuderla. Non sapeva se nella cassaforte, oltre ai preziosi, suo padre custodisse anche documenti. Riteneva che potessero essere stati messi nella cassaforte i documenti della casa, che in quel periodo era stata pignorata e messa all’asta per debiti insoluti verso banche. I sospetti di suo padre si erano incentrati sui ragazzi che lei e sua sorella erano soliti frequentare, ma non era riuscito ad ottenere dagli stessi alcuna notizia sul furto».
Alcune delle dichiarazioni dell’audita lasciano esterrefatti, come la sua affermazione che il generale Mori sia un “golpista”, vicino alla “Rosa dei venti” e che, fatto assolutamente non dimostrato, che il suo nome fosse inserito nelle liste di un’organizzazione Stay Behind (alludeva a Gladio o ad altre organizzazioni europee?) e di Ordine Nuovo, gruppo politico di estrema destra extraparlamentare. Sarebbe interessante conoscere la fonte di tali informazioni.
Si è parlato anche dell’omicidio dell’Ilardo anche se, pur citando la sentenza passata in giudicato, sono stati sollevati dubbi a causa di una serie di dichiarazioni del Giuffrè, collaborante ma in questo caso specifico non riscontrato, ma l’audita è stata smentita dal suo stesso legale, presente all’audizione, quando si (e ci) chiedeva se un signor nessuno come Zuccaro avrebbe potuto agire da solo senza il consenso della Commissione. Proprio il suo legale ha aggiunto che «se ciò fosse successo si sarebbe scatenata in Catania una guerra di mafia che, in effetti non c’è stata» confermando implicitamente che l’omicidio aveva avuto il beneplacito. Fuoco amico, si potrebbe dire e in realtà così è stato perché la valutazione dell’avvocato Felice Centineo Cavarretta Mazzoleni è corretta.
In sostanza quasi tutta l’escussione, nonostante la bouna fede dell’audita, si è basata su punti di vista personali, mezze verità (e quindi mezze non verità), dichiarazioni non riscontrate. A questo serve la Commissione Antimafia? Penso, e spero, di no.
Per parafrasare un vecchio detto “Non ci sono più i Presidenti della Commissione Antimafia di una volta”.
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