Giustizia

Caso Gozzini: il “rispetto” della follia

14 Dicembre 2020

Non è stata vista di buon grado l’assoluzione resa dalla Corte di Assise di Brescia nel processo nel quale è stato scagionato un signore ottantenne – Antonio Gozzini – che ha ucciso la propria moglie.

Sia sulla stampa che attraverso i social, il caso giudiziario è stato interpretato in modo strumentale e si è impropriamente ritenuto che fossimo al cospetto di un uxoricidio o anche di un femminicidio. Ovviamente il Ministro della Giustizia, questo Ministro della Giustizia, per sua incompetenza e senza preventivamente informarsi delle carte processuali, ha minacciato l’invio di ispettori, per seguire l’onda della demagogia giudiziaria e per assecondare le urla e le grida di una moltitudine che, invece, vuole il colpevole a tutti i costi, proprio perché l’omicidio ha come vittima una donna. Si apostrofa di un’assoluzione indegna, senza che si sia scandagliato il fatto, esaminata la condotta criminosa, il movente, le condizioni soggettive del reo.

Invece l’assoluzione dell’ottantenne, che tra l’altro ha confessato candidamente il suo delitto, è stata determinata in ragione di fatti irrefragabili.

L’assassino si è presentato spontaneamente ed ha confessato di aver ucciso la propria moglie.

Dal racconto sconnesso e confusionario, il Pubblico Ministero ha affidato il caso ad un suo consulente di parte, il quale, nel suo elaborato, ha constatato che l’omicidio sia avvenuto in uno stato di infermità di mente.

È noto che in questi casi debba essere invocata l’applicazione dell’art.85 primo comma del codice penale, a tenor del quale “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile”.

Deve essere rimarcato – e questa circostanza risulta decisiva per il clamore mediatico sollevato e perché si parlasse impropriamente di uxoricidio o femminicidio – che il Pubblico Ministero, sconfessando il lavoro del suo consulente di parte, ha richiesto immotivatamente l’ergastolo. La parte civile, quella offesa dalla condotta criminosa, ha rinunciato, di converso, alla costituzione. Il consulente di parte della difesa dell’imputato è approdato alle medesime conclusioni di quelle del pubblico ministero.

Dunque due consulenze e non una che accentuano che il delitto si sia dispiegato nella commissione del fatto per infermità di mente. Non restava, perciò, che l’assoluzione, che il codice penale stabilisce al cospetto della impunibilità, allorché un reato non si ritenga commesso, perché emerge l’infermità di mente, tale da escludere in radice la capacità di intendere e di volere, come previsto dall’art.88 c.p.: “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere”.

La civiltà del diritto ammette il reato e ne chiede la punizione, solo quando la condotta sia improntata a colpa o dolo. Lo esclude quando ricorre l’incapacità di intendere e di volere.

Dovrebbero, questo Pubblico Ministero e lo stesso Ministro di Grazia e Giustizia, Bonafede, leggersi le bellissime ed affascinanti pagine di un grande filosofo francese, Michel Foucault, che ha dedicato una vita intera allo studio della follia.

La follia è sragione, scomposizione, mortificazione radicale della coscienza, sua tragica e conflittuale inversione, vaniloquio sospeso che porta irrimediabilmente a perdere il determinismo causale nella sua ferrea imputazione del nesso, che giunge alla drammatica disgregazione dell’io pensante. Ed il folle provoca abiezione, disprezzo.

Ma il diritto ne rifiuta la punizione e ne vuole, se del caso, tentare il suo recupero, come esige la funzione della pena in chiave costituzionale. Non il carcere, ma necessarie misure di sicurezza. Perché, in fondo, la follia è fragilità che provoca solo commozione e disperazione, per chi commette un fatto delittuoso e per chi lo subisce.

Ed i folli sono su una nave, la famosa “nave dei folli”, perché devono essere inconfutabilmente evitati, separati dalla ragione feconda. Affidare il folle ai marinai significa evitare certamente che si aggiri senza meta sotto le mura della città, assicurarsi che andrà lontano, renderlo prigioniero della sua stessa partenza. Ma a tutto questo l’acqua aggiunge la massa oscura dei suoi valori particolari; essa porta via, ma fa ancor più: essa purifica; e inoltre la navigazione abbandona l’uomo all’incertezza della sorte; là ognuno è affidato al suo destino, ogni imbarco è potenzialmente l’ultimo. È per l’altro mondo che parte il folle a bordo della sua folle navicella; è dall’altro mondo che arriva quando sbarca. Questa navigazione del pazzo è nello stesso tempo la separazione rigorosa e l’assoluto Passaggio (Foucault: Storia della Follia).

Hegel ci ricorda nell’aggiunta del § 408 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche che

«L’uomo soltanto giunge a cogliersi in quella completa astrazione dell’io. Perciò egli ha, per così dire, il privilegio della mania e del delirio».

Solamente l’essere umano, che a differenza dell’animale possiede una razionalità spirituale, è quindi in grado di sprofondare nella malattia mentale, è in grado di sviluppare quella sintomatologia psichica che, nei suoi riflessi corporei, e dunque somatici, permette di riconoscere il processo secondo il quale la mente si aliena da sé.

La Corte di Assise di Brescia è stata coraggiosa, perché ha sfidato la notte buia dell’ignoranza, la furia della moltitudine, di cui parlava Manzoni nella “Storia della Colonna infame”.

Ha applicato il codice penale con naturalezza, ben conscia che se stiamo al cospetto di non imputabilità del reato per manifesta incapacità di intendere e di volere, il carcere non serve, soccorre il lume della Ragione, che deve invocare il diritto.

Proprio Foucault diceva:

“L’eterogeneità della follia non costituisce mai un principio di esclusione; o meglio ancora, l’eterogeneità non impedisce in nessun caso la coesistenza, la congiunzione, la connessione”.

Perché la follia è contro il limite che invoca la Giustizia, con la Ragione, quando deve punire.

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