Giustizia

Bossetti, solo ipotesi per un delitto

18 Luglio 2017

La cronaca nera, si sa, è una brutta bestia. Da un lato è probabilmente il meglio che il giornalismo possa offrire per raccontare la società, il famoso paese reale, dall’altro il confine con la pornografia non è sempre perfettamente riconoscibile. Schiere di telespettatori che fanno grandi i programmi del pomeriggio in cui si passa con grande nonchalance dall’ultimo omicidio ai consigli per affrontare il caldo d’estate, il freddo d’inverno, il tiepido in autunno, senza soluzione di continuità. Giornalisti, criminologi, aspiranti star in rampa di lancio: il richiamo della foresta, quando c’è un fatto di sangue, è troppo forte per non meritare nemmeno un commento.

Così i mesi passano e si continua a parlare del nulla, e le consapevolezze del pubblico vengono a mancare ogni giorno di più, fino ad arrivare a una versione della storia che magari non ha nulla a che fare con la realtà ma che diventa architrave di ragionamenti molto complessi, radice profonda di uno spirito di vendetta più da fumetto che da Stato di diritto.

Prendiamo il caso di Massimo Bossetti. Le chiavi di lettura sono due: una è quella giudiziaria (problematica) e un’altra è quella mediatica (molto problematica). I due piani, con il passare del tempo, si intrecciano fino a diventare una matassa impossibile da sciogliere: prove scientifiche, testimonianze, volontà popolare, indignazione. Ci sarà un legame tra il crescente astensionismo elettorale e l’insopprimibile volontà di esprimere opinioni anche molto forti su indagini aperte e molto incerte? È un modo per compensare? È sempre stato così? I quindici minuti di celebrità di Andy Warhol c’entrano fino a un certo punto, perché nel mare magnum dei social network è ormai impossibile distinguere la singola opinione dalla vulgata a cui appartiene: giustizialisti vs garantisti, innocentisti vs colpevolisti, tolleranti vs intolleranti e così via.

Nella notte tra lunedì 17 e martedì 18 luglio, la Corte d’Appello di Brescia ha confermato l’ergastolo per Massimo Bossetti, accusato di aver ucciso Yara Gambirasio, nel 2010 a Brembate di Sopra, nel bergamasco. La camera di consiglio (otto giudici: due togati e sei popolari) è durata quindici ore. L’attesa sui giornali e in televisione è stata spasmodica, mancava giusto il countdown in un lunedì di luglio ideale per una grande giornata di cronaca nera. D’estate le storie piacciono, parlare di un omicidio sotto l’ombrellone dà anche un tono, in fondo.

Quello che nessuno si chiede è come si sia arrivati fino a questo punto. O meglio, tutti sono perfettamente convinti che il Dna di Bossetti uscito fuori dopo una maxiperizia costata svariati milioni di euro sia uno scacco matto, la «prova regina» come va di moda dire adesso sui rotocalchi. Quello che non si dice – e che chi è un minimo addentro alle faccende di tribunali evita quasi sempre di dire – è che la prova scientifica, per definizione, non è una prova ma un indizio: il fatto che su Yara sia stato trovato Dna di Bossetti, di per sé, non vuol dire nulla. E comunque non si potrà effettuare una nuova perizia perché il materiale è troppo poco, quindi la difesa non ha avuto diritto a partecipare all’accertamento tecnico.

Per arrivare a imbastire un’accusa convincente servirebbero altre prove, testimonianze, un’arma del delitto, un movente sicuro. Qui invece non esistono altre prove, non ci sono testimonianze al di là delle impressioni personali dei conoscenti di Bossetti o della famiglia di Yara, l’arma del delitto non è mai stata ritrovata, il movente è un’ipotesi. A questo punto c’è da sperare che il condannato sia davvero il colpevole. La lunga camera di consiglio conferma che, con ogni probabilità, non tutti i giudici fossero convinti della solidità dell’accusa. E comunque, attenzione, manca ancora un grado di giudizio: la Cassazione, che farà luce sui veri aspetti decisivi del caso, cioè su come sono state svolte le indagini.

Sembra un particolare di secondaria importanza, il processo al processo, il regno degli azzeccagarbugli, l’ultima eredità della barocca giurisprudenza borbonica. In realtà il conto delle sentenze di omicidio smontate in Cassazione ormai tende a infinito. Basti citare Amanda Knox, la cui assoluzione fu frutto di una serie di marchiani errori investigativi durante la fase di raccolta delle prove. La scena del delitto era stata irreparabilmente inquinata, i giudici non poterono fare a meno di sottolineare come le prove scientifiche raccolte in quelle condizioni non fossero altro che indizi, e neanche così forti come per mesi era stato fatto trapelare sui giornali e in televisione.

Vi ricorda qualcuno o qualcosa?

 

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