Giustizia
Bonafede e Cartabia, le due facce della stessa moneta (falsa)
Tra una settimana il governo Draghi porrà la queatione di fiducia sulla “riforma della Giustizia” proposta dal ministro della Giustizia, ex presidente della Corte Costituzionale, e papabile prima donna presidente della Repubblica. Il passato di giudice Costituzionale e, soprattutto, il possibile futuro, non sono un dettaglio. La settimana che Draghi ha dato alla politica è un termine perentorio: o ci si mette d’accordo prima, in pochi giorni, su poche modifiche che non stravolgano l’impiano della “riforma”, oppure si vota la fiducia così com’è. E comunque, sarà col voto di fiducia che si voterà il testo della riforma, anche emendato, per non rischiare brutte sorprese.
La “riforma” però non è una vera riforma. Interviene sostanzialmente sul meccanismo della prescrizione del reato, cioè su quelle norme che nel codice penale sanciscono il tempo massimo entro il quale i reati possono essere perseguiti e valutati dai giudici, fino a produrre una sentenza definitiva atta a produrre effetti sulle vite dei colpevoli, anche con la limitazione della loro libertà. Questo istituto giuridico, caro a tutti gli ordinamenti liberali e democratici, serve a non rendere giudicabili all’infinito colpevoli e soprattutto innnocenti, da un lato. Serve anche a evitare di istituire processi a distanza di tanti tanti anni, quando le prove sono svanite e le testimonianze offuscate dal passare dei decenni. Va detto, anche, che quando l’istituto – risalente al diritto romano – venne rivisitato dai padri nobili del pensiero penalistico europeo – molti gli italiani, da Beccaria a Romagnosi – nessuno immaginava che la prescrizione del reato potesse diventare un esito quasi normale, e anche l’obiettivo naturale di una strategia difensiva, per i processi. Si immaginava, ottimisticamente, che dovesse rimanere un’eccezione estremamente minoritaria, in un sistema che funziona. Esattamente il contrario di ciò che, ormai, avviene in Italia. Gli avvocati onesti intellettualmente riconoscono che la prima domanda che ricevono dagli assistiti, mentre firmano il mandato è: “ma quando va in prescrizione?”. Ovviamente non è un bene, per un sistema giudiziario e democratico, che invece di poter scoprire e condannare i colpevoli ci si debba rassegnare ad ammettere che il sistema giudiziario non è in grado di farlo in tempi umani.
Per ovviare a questo grave problema, il governo Conte I, tra i mal di pancia di Salvini che portarono a un posticipo al primo gennaoi 2020 dell’operatività delle nuove norme, varò la riforma Bonafede. L’allora ministro della giustizia firmò norme che, in sostanza, allungavano molto sostanziosamente i rempi della prescrizione rendendoli di fatto irraggiungibili anche per la lentissima giustizia penale italiana. In sostanza, invece di intervenire sulle cause della lentezza – troppi reati, cattiva organizzazione degli uffici giudiziari, pochi magistrati effettivi, e molte altre questioni enormi – si interveniva sulla norma che, semplicemente, è il segnale del mal funzionamento. Si diventava “eternamente processabili”, per non risolvere il vero problema, cioè l’eterna lentezza della macchina giudiziaria. Era una buona soluzione? Ovviamente no.
La riforma Cartabia, tuttavia, realizza l’operazione uguale e contraria, accorciando drasticamente i tempi della prescrizione, istituendo una confusa “non procedibilità” a partire dal secondo grado di giudizio, per il quale i tempi sono ridotti drasticamente. In sostanza, si dice, qualora intervenga la prescrizione – cosa molto probabile, dato lo stato dei tribunali italiani e di alcune corti di appello in particolare – i reati eventualmente accertati in primo grado non saranno dichiarati estinti ma solo non procedibili. Solo che fortunatamente continua a essere in vigore la costituzione italiana, che dichiara innocente chiunque non sia giudicato colpevole con sentenza definitiva. E la non procedibilità, altrettanto fortunatamente, sancirà la non colpevolezza. A usare toni allarmati sul punto non è stato solo il procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho, ma anche qualche penalista di lungo corso e di sicuro credo garantista, come Franco Coppi. Altri, come Giuliano Pisapia, sono invece ottimisti, perchè credono alla promessa di un irrobustimento della macchina dell’amministrazione della giustizia, all’assunzione di molti nuovi e giovani magistrati, che consentiranno alla macchina di camminare in tempi decenti, evitando quindi la falcidia massiva dei nuovi (e brevi) termini di prescrizione.
Oggettivamente, non è credibile la promessa che il rafforzamento dei ranghi giudiziari sia così rapido da impedire una prescrizione di massa. Sappiamo tutti quanto tempo ci vuole a bandire i concorsi, a organizzarli (in epoca di Covid, poi!), a renderli effettivi. Si parla di migliaia di magistrati, che tradotto vuol dire anni e anni, per essere fortunati. La verità, semplice e spiacevole, è un’altra. L’Europa ci ha chiesto – per l’ennesima volta – di accorciare i tempi dei processi. Questa volta aveva un’arma convincente – i soldi del Piano Nazionale Resilienza e Ripresa – e un alleato solido e autorevole a Palazzo Chigi, la cui forza evidentemente non trova contrappesi nelle umbratili forze politiche che lo sostengono nè nella categoria di cui chi scrive fa parte. E quindi, per arrivare all’obiettivo, si procede nella direzione opposta rispetto a quella di Conte e Bonafede, ma condividendone lo stesso errore di fondo: invece di risolvere le molte situazioni patologiche che provocano la febbre, si preferisce cambiare le tacche del termometro.
L’aria continuerà a essere irrespirabile, insomma, ma la colonnina che ne segnala la qualità invece di accendere un semaforo rosso restituirà a chi la guarda un bel verde squillante.
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