Giustizia
Babbo Natale arriva anche dietro le sbarre
C’è un piccolo cortile con un giardinetto per giocare. I corridoi sono allegri e colorati. E ogni mamma ha una stanza tutta sua per sé e per il suo bambino. Ma la normalità finisce qui. Le finestre hanno sbarre. E le porte vengono chiuse la sera per non essere riaperte fino al mattino dopo. «Insomma, è sempre un carcere», dice senza tanti giri di parole Gioia Passerelli, presidente di A Roma insieme, l’associazione che di queste mura, e di queste mamme e di questi bambini si occupa da oltre vent’anni.
Le mura di cui stiamo parlando sono quelle del cosiddetto nido del carcere di Rebibbia. Le mamme sono detenute che hanno figli talmente piccoli – da 0 a 3 anni – che è meglio che restino con loro anche se confinati in una cella. Ma chi sono più precisamente queste giovani donne e i loro bambini? Sono italiani o stranieri? Poveri o ricchi? «Qui a Roma – risponde Passerelli – la maggior parte sono ragazze di etnia Rom, che a furia di commettere piccoli furti finiscono per accumulare 5 o 6 anni di pena da scontare. In generale sono persone poverissime e noi dobbiamo provvedere a tutto: vestiti, giochi, libri».
Anche in questi giorni di festa, i sette bambini attualmente “ospiti” del nido di Rebibbia resteranno all’interno del carcere. Ma Babbo Natale, nonostante portoni e chiavistelli da superare, non mancherà di andarli a trovare: l’associazione A Roma Insieme ha organizzato una festa con dolci, addobbi e regali. Ma, dice Passerelli con una punta di amarezza, mancherà sempre qualcosa: «I bambini non sono davvero liberi: non possono stare con i fratelli, i cugini. E così, in un certo modo, pagano una colpa che non è la loro».
Nel nido di Rebibbia
I volontari di “A Roma” insieme cercano di rendere il nido di Rebibbia il più accogliente possibile: fanno giochi e laboratori di arte e musica, come in un asilo. E poi organizzano gite per andare a scoprire il mondo di fuori. Ma proprio il rapporto tra il fuori e il dentro è, per i figli delle detenute, il problema più grosso: «Le prime volte che escono con i nostri operatori – spiega Passerelli – alcuni sono terrorizzati dai rumori del traffico perché non sono abituati alle macchine. Sono come stupiti di tutto quello che vedono intorno. Anche staccarsi dalla madre all’inizio li fa piangere. Poi, però, quando si sono abituati alle gite, il problema diventa farli rientrare la sera…».
Volontari nel carcere di Rebibbia
Stando in carcere, poi, questi bimbi possono sviluppare una visione distorta della realtà: «Ricordo – spiega ancora Passerelli – un bambino che a casa di una volontaria, dopo aver visto, la sua stanza le disse: che bella cella che hai! Un altro bimbetto, d’inverno, si era messo della neve in tasca per portarla a vedere alla mamma rimasta in cella. No, guardi, mi creda: vedere il carcere attraverso gli occhi di un bambino è così terribile, innaturale».
Da anni l’associazione guidata da Gioia Passerelli si batte proprio perché i nidi di tutte le carceri italiane, che oggi ospitano complessivamente 44 bambini, vengano chiusi definitivamente. Le alternative, anche se in parte solo sulla carta, per altro esistono. La legge infatti già prevede due diverse soluzioni al posto del penitenziario. La prima: gli ICAM, istituti a custodia attenuata, per le madri (e i loro figli) che devono scontare la loro pena in carcere. La seconda: case famiglia protette per le mamme condannate invece agli arresti domiciliari.
Fonte: Dipartimento Amministrazione Penitenziaria
Ma di ICAM in Italia, per ora, ne esistono solo tre: Milano, Torino e Venezia. Mentre di case famiglia protette in grado di ospitare detenute ai domiciliari non ce n’è al momento nemmeno una in tutto il Belpaese. E così a Roma il nido di Rebibbia rimane ancora aperto. Ma chissà che con l’anno prossimo non arrivino delle novità: «Mi auguro davvero che il 2016 porti i soldi per queste case famiglia protette – dice Passerelli – A Roma, per altro, la giunta Marino, appena prima di cadere, aveva anche individuato il posto per aprirne una ad hoc. Speriamo. Certo sono ormai talmente pochi questi bambini, che una soluzione la si potrebbe trovare, volendolo davvero».
I figli dei detenuti in Italia sono 100mila
Anche se il prossimo anno dovessero davvero chiudere tutti i nidi delle carceri, saranno comunque tantissimi i bambini che varcheranno le porte di un penitenziario per stare con i loro genitori. I bimbi che vivono con le madri in cella, infatti, sono solo poche decine. Ma i figli dei detenuti sono un piccolo esercito: in totale, secondo l’associazione milanese Bambini Senza Sbarre che dagli anni Novanta si occupa di tutelare i diritti di questi minori, sarebbero ben 100mila.
«Solo a Milano, ogni mattina – spiega Lia Sacerdote, presidente di Bambini Senza Sbarre – un centinaio di bambini va a trovare il proprio genitore in prigione. Sono talmente tanti, che a guardarli fare la fila fuori, sembra di essere davanti ad una scuola. E’ uno dei tanti paradossi delle carceri: sono luoghi pensati solo per gli adulti, ma frequentati dai bambini». Questi bambini, spiega sempre Sacerdote, spesso vengono da famiglie povere e sono per circa un terzo stranieri. Ed è un loro diritto ed un loro bisogno quello di mantenere un rapporto con il loro genitore anche se detenuto.
Certo, i problemi non mancano: «Il momento più delicato delle visite – dice Sacerdote, che di professione è psicologa – è quando i bambini restano soli in attesa di vedere il loro papà o la loro mamma. Vengono da fuori, da un mondo completamente diverso e sono pieni d’ansia». Per questo è importante che gli agenti di polizia penitenziaria li accolgano nel modo giusto: «Devono – dice ancora Sacerdote – trattarli appunto come bambini: sorridere, abbassarsi quando gli parlano, mostrare considerazione nei loro confronti. Noi stessi in Lombardia facciamo formazione a questi agenti».
La perquisizione all’ingresso del carcere
Sempre Bambini Senza Sbarre ha allestito nelle tre carceri di Milano – Opera, Bollate e San Vittore – i cosiddetti spazi gialli, spazi cioè colorati e accoglienti dove i figli dei detenuti aspettano e si preparano al colloquio giocando e disegnando con dei volontari dell’associazione. Poi, certo, ci sono momenti dell’anno che sono particolarmente delicati per queste famiglie: uno è appunto il Natale. E anche per questa festa, l’associazione guidata da Lia Sacerdote, ha trovato il modo di portare un po’ di allegria dentro le mura delle prigioni: tanti Babbi Natale, in questi giorni, stanno distribuendo giocattoli e peluche ai bimbi in visita.
Bambini dietro le sbarre
Tutto questo per far sì da un lato che i bambini vivano il carcere nella maniera più positiva e normale possibile; dall’altro per aiutare i detenuti a svolgere al meglio il loro ruolo di genitori. Del resto, sottolinea sempre la presidente di Bambini Senza Sbarre, «questi figli devono mantenere la relazione con il loro genitore proprio per poter scegliere uno stile di vita diverso. Alcuni padri in carcere, quando si rendono conto davvero dei loro errori, arrivano a dire: solo io posso evitare che mio figlio diventi come me. Parole come queste sono davvero importanti per i loro figli».
Tanto più che, come ricorda Sacerdote, uno studio francese condotto su tutto il continente europeo mostra come ben il 30% dei figli dei detenuti finiscano essi stessi per commettere crimini ed andare anche loro in prigione. Insomma: questi ragazzi sono a loro volta a rischio di ricadere negli errori dei padri.
Le situazioni più difficili? «Quando il detenuto e la sua famiglia – risponde Sacerdote – provengono da un ambiente mafioso, perché i figli vedono spesso il padre come qualcuno che sta in prigione ingiustamente. Per questi ragazzi incontrare il carcere significa incontrare lo Stato e la legalità e per questo il carcere si deve comportare davvero bene. Ecco un altro paradosso della prigione: è anche un luogo di formazione».
A colpi di libri
Davvero i mafiosi sono i detenuti più problematici anche quando si tratta di fare i genitori? Lina di Maio, che è pediatra e lavora anche come volontaria nel carcere di Secondigliano, nella periferia a Nord di Napoli, non è d’accordo al cento per cento: «Non ho mai voluto sapere cosa avevano fatto i genitori dei bambini che aiutavo perché non volevo avere pregiudizi. Se l’esempio dei genitori è importante? Certo che sì. Ma il contesto in cui questi bambini crescono conta pure tantissimo».
E il contesto, a Secondigliano, è quello che è: «Il quartiere in cui vivo e lavoro si chiama Rione de’ Fiori, detto O’ Terzo Mondo – racconta Di Maio –. Alcuni bambini, qui, non hanno la possibilità di scegliere, così come i loro genitori, che ora magari sono in carcere, mica hanno davvero scelto di fare, per esempio, il palo in una rapina». Manca il lavoro così come mancano gli incentivi a studiare: «Nell’intera area Nord di Napoli – dice sempre Di Maio – non ci sono librerie o quasi. E la biblioteca pubblica è stata chiusa per 3 anni. Biblioteca pubblica che si trovava vicino alla casa di un noto camorrista. Ecco: va bene l’esempio dei genitori, ma che esempio dà anche lo Stato? Ed è sempre lo Stato che deve subito mettersi al fianco dei bambini più fragili, come i figli dei detenuti appunto, con progetti ben precisi e aiutarli a prendere la direzione giusta».
Di Maio, che è una volontaria dell’Associazione Culturale Pediatri, cerca di fare la sua parte con un progetto chiamato Nati per leggere. In pratica: lei ed altri volontari come lei accolgono i bambini che vanno a trovare i loro genitori in carcere e nell’attesa del colloquio gli leggono un libro. Ma non basta: cercano anche di convincere i detenuti stessi a leggere una storia ai loro figli. «Se questi bambini imparano a leggere bene – sottolinea con forza la volontaria dell’Associazione culturale pediatri – allora sì che potranno studiare e che la loro vita potrà essere diversa. Spesso i carcerati mi dicono che nun tengono ‘a capa per fare queste cose. Ma io insisto lo stesso».
Volontari e bambini al carcere di Secondigliano
Già, i bambini hanno le loro difficoltà. Ma quali sono i problemi che incontrano i detenuti nel svolgere il loro ruolo di genitori? «Spesso – risponde Di Maio – l’urgenza di parlare anche di cose molto pratiche con la moglie impedisce di dedicarsi ai bambini. Ogni carcerato ha diritto a circa sei o otto ore di colloqui al mese con i propri famigliari ed è troppo poco».
Dal canto suo, il carcere di Secondigliano e i suoi dirigenti hanno cercato di andare incontro per quanto possibile alle famiglie dei detenuti. Il penitenziario ha lavorato per tagliare i tempi di attesa per i colloqui il più possibile e ha cominciato a restare aperto, sempre per i colloqui, anche nel pomeriggio in modo tale che i bambini non debbano perdere ore di scuola per incontrare il loro papà. «E a dicembre – sottolinea Giulia Leone, dirigente penitenziario e referente dell’area pedagogica del carcere di Secondigliano – abbiamo cominciato ad aprire anche il sabato. Con le feste, infatti, l’affluenza aumenta. A Natale? A Natale no, il carcere resterà chiuso per i colloqui, ma dall’anno prossimo cercheremo di tenere aperto anche per i festivi».
Problemi cronici
L’apertura per i colloqui anche al pomeriggio e nel weekend sta diventando pian piano la regola in tutta Italia. Secondo i dati che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) ha fornito a Gli Stati Generali dei 194 penitenziari italiani, 98 sono aperti anche il sabato e 133 anche la domenica. Sempre il DAP fa sapere che sta cercando di sensibilizzare le direzioni dei carceri per tenere aperto anche i festivi. Ma qui alcuni nodi vengono al pettine, come spiega Massimiliano Prestini, il coordinatore per la CGIL del sindacato delle guardie penitenziarie.
Prestini snocciola subito due numeri: in teoria gli agenti di polizia penitenziaria dovrebbero essere 45mila, in pratica sono 38mila. «Fa una differenza – sottolinea Prestini – del 20 per cento. E in più molte unità di personale non sono in carcere ma impegnate in attività amministrative». Quindi allargare l’orario di apertura e comprendere anche i festivi è un problema per chi lavora nelle prigioni? «Il fatto di aumentare i turni – risponde il sindacalista della Cgil – crea delle problematiche. Si tratta di bilanciare i diritti del personale con le esigenze di una società civile. In alcuni carceri ci si è riusciti, in altri meno».
Comunque il punto, torna a dire Prestini, è che occorrerebbe più personale e non solo per quel che riguarda gli agenti: «Mancano anche educatori e assistenti sociali. Si cerca di fare molta attenzione alle esigenze dei bambini per fare pesare meno su di loro la condizione dei genitori. Tutto questo, però, è molto affidato al volontariato proprio perché mancano i fondi per progetti più strutturati e strutturali che potrebbe portare avanti il carcere autonomamente».
Ma negli ultimi due anni, riconosce il sindacalista, è stato comunque fatto un grande sforzo per rendere comunque le carceri più vivibili: grazie al cosiddetto pacchetto svuotacarceri varato dal governo Renzi nel 2014, i detenuti si sono ridotti da 67mila a 52mila contro una capienza massima che in teoria dovrebbe essere di 49mila. Quindi: «L’emergenza sovraffollamento è rientrata e la vivibilità è aumentata» per tutti, famigliari dei detenuti e agenti penitenziari inclusi, conclude Prestini.
Carceri vivibili
Anzi, negli ultimi anni, di passi in avanti per rendere le carceri un posto più vivibile per i detenuti e le loro famiglie ne sono stati fatti tanti. Merito o conseguenza della sentenza Torreggiani, ossia della sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, nel 2013, ha condannato l’Italia proprio per la condizione dei suoi penitenziari. Da allora, appunto, si è lavorato innanzitutto per risolvere il problema del sovraffollamento. Ma non solo. L’Italia, tra l’altro, è stata il primo Paese europeo, nel marzo 2014, ad approvare una Carta dei diritti dei bambini che hanno genitori in carcere.
«Molto rimane da fare, ma c’è sicuramente una evoluzione positiva», dice il magistrato Francesco Cascini. Cascini è stato vice capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e ora è a capo, sempre al ministero della Giustizia, del Dipartimento della Giustizia minorile. È vero che spesso i giovani che hanno guai con la giustizia hanno genitori che a loro volta hanno conosciuto il carcere? «L’elemento comune a questi giovani è il disagio che può essere culturale, sociale, economico. E spesso altri famigliari sono nel circuito dell’illegalità, soprattuto nei territori che ospitano organizzazioni criminali». Non pensa Cascini che per evitare che i figli compiano gli errori dei padri, occorra aiutare i detenuti ad svolgere il loro ruolo di genitori? «Il sostegno alla genitorialità è importante. Ma – lamenta il capo Dipartimento della Giustizia minorile – il ministero della Giustizia da solo non ce la può fare senza l’aiuto del territorio».
In effetti, ad esempio, le case famiglia protette per mamme e bambini da 0 a 3 anni – che sono previste dalla legge, ma di fatto non esistono – dovrebbero essere aperte dai Comuni e non dal Ministero. Ma a pesare non è anche il fatto che in Italia l’opinione pubblica vede nelle condanne solo una forma di punizione e non, come per altro prevede la Costituzione, per riabilitare? «Qui non si tratta di non punire – risponde Cascini – ma di punire in modo diverso. Chi sbaglia deve, per quello che è possibile, ripagare la società non in modo passivo, ossia stando semplicemente in carcere, ma attivo facendo un lavoro di pubblica utilità. Vedere i segni tangibili di questo tipo di lavoro potrebbe fare cambiare idea a tante persone».
La chiave di volta potrebbero esser proprio le pene alternative al carcere introdotte anche con il cosiddetto pacchetto svuotacarceri. Ma, ammette Cascini, «i frutti non li raccoglieremo subito, ma tra qualche anno».
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