Giustizia
Ancora due condanne dei magistrati di Strasburgo all’Italia
Proprio a ridosso dell’euforia che in Australia ha accompagnato l’introduzione della nuova disciplina del matrimonio estesa anche alle coppie omosessuali, la Corte Europea per i diritti dell’uomo ha condannato giovedì 14 dicembre l’Italia per il mancato riconoscimento legale di sei unioni matrimoniali celebrate all’estero tra coppie dello stesso sesso prima del 2016. In seguito ad una domanda presentata il 20 aprile 2012 (Orlandi e altri c. Italia domanda n° 26431/12) i 7 giudici europei hanno statuito che il nostro Paese deve pagare 5.000 euro a titolo di danni non pecuniari ad ognuno dei ricorrenti ed inoltre 9.000 euro quali rimborso delle spese legali ad una delle coppie ricorrenti e 10.000 in via congiunta alle altre. Due magistrati hanno espresso un’opinione contraria ed uno un’opinione concorrente, ma la maggioranza di 4 giudici ha prevalso in camera di consiglio.
La Corte ha ravvisato una violazione dell’articolo 8 della convenzione europea dei diritti dell’uomo sul rispetto della vita privata e di famiglia perché, pur nell’ampia discrezionalità relegata agli Stati sul se e come regolare le unioni tra persone dello stesso sesso, il nostro Paese non aveva adottato affatto alcuna disciplina prima del 2016. Solo in quell’anno venne introdotta la normativa sulle unioni civili dopo la decisione della stessa Corte di Strasburgo nel caso Oliari ed altri c. Italia.
Undici cittadini italiani ed una canadese che si erano sposati all’estero -tre coppie in Canada, una in California e due in Olanda- al loro rientro in Italia avevano provato a ottenere la registrazione dei propri matrimoni invano. Una circolare del Ministero degli Interni del 2001 rilevava infatti come impedimento la contrarietà all’ordine pubblico. Due coppie rispettivamente a Napoli e Roma, dopo un primo rifiuto ottennero in verità temporaneamente la registrazione dell’atto matrimoniale allo stato civile nel 2014 per effetto di nuove indicazioni espresse dai sindaci, ma una nuova circolare del Ministero degli Interni ne dispose la cancellazione. Una delle coppie congiuntasi in matrimonio in Olanda adì persino le vie giudiziarie, ma perse in Cassazione nel 2012.
Anche se nel frattempo alcune delle coppie per effetto della disciplina del 2016 sulle unioni civili hanno ottenuto la registrazione dei vincoli contratti all’estero, i giudici hanno dovuto stabilire se nel periodo anteriore ci fosse stato un equilibrio adeguato degli interessi contrapposti. Gli Stati possono decidere di non garantire alle coppie omosessuali l’accesso al matrimonio, ma devono comunque dare loro un inquadramento ed una tutela legali, hanno osservato i giudici. La mancata registrazione delle unioni civili in Italia prima del 2016 ha invece privato i ricorrenti di qualsiasi tutela legale, lasciandoli in un vuoto legislativo che li costrinse ad affrontare difficoltà. L’Italia non ha tenuto conto della loro realtà di fatto, mentre non poteva disconoscere si trattasse di una situazione corrispondente a quella familiare analoga a quella indicata nell’articolo 8 della convenzione, hanno statuito a maggioranza i magistrati. Su questa base hanno peraltro poi omesso di verificare se, come sostenevano i ricorrenti ci fosse stata anche una violazione dell’articolo 14 che vieta le discriminazioni basate sul sesso, o dell’articolo 12 che inferisce il diritto di riunione ed associazione. I magistrati hanno invece riscontrato che in 27 dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa è stata introdotta una normativa che ammette le unioni civili tra coppie dello stesso sesso, ma che non vige altrettanto consenso nel riconoscere i matrimoni tra coppie non eterosessuali contratti all’estero, concludendone quindi che gli Stati godono comunque di molto spazio di manovra.
È appena il caso di aggiungere che appena una settimana prima, il 7 dicembre, l’Italia è stata condannata dai magistrati di Strasburgo anche per la lentezza dei procedimenti giudiziari a versare ad una ricorrente 4.500 euro a titolo di danni non patrimoniali e 1.500 per costi e spese in osservanza dell’articolo 6 paragrafo 1 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo. Il caso (Arnoldi c. Italia, n° 35637/04) verteva su un procedimento penale interrotto per prescrizione.
Nel febbraio 1990 la ricorrente aveva richiesto la demolizione di un camino costruito su un edificio di cui affermava di essere la proprietaria. Nel settembre di quattro anni dopo la municipalità la informava che il proprietario dell’immobile contiguo ed altri quattro testimoni avevano asserito sotto giuramento che il camino ci sarebbe già stato da parecchio tempo. Il 9 ottobre 1995 la ricorrente denunciò tutti e cinque i dichiaranti per falsa testimonianza. Dopo più di sette anni, il 22 gennaio 2003, il magistrato però dispose l’archiviazione del procedimento per sopravvenuta prescrizione.
La combattiva ricorrente, classe 1946, si rivolse allora alla Corte d’Appello di Venezia chiedendo l’applicazione della legge Pinto del 2001 che dà titolo a risarcimento per l’irragionevole durata di un processo. La Corte ritenne però l’appello inammissibile. Per la parte lesa la durata del procedimento doveva partire dal momento in cui essa vi si costituiva parte civile, ma la denunciante non si era mai costituita parte civile e quindi non poteva essere considerata parte del procedimento e lamentarne l’eccessiva durata. La Corte riconobbe che il motivo per cui la ricorrente non poté accedere al giudizio fu in effetti l’eccessiva durata delle investigazioni preliminari, ma rimarcò che era stata libera scelta della ricorrente di rivolgersi solo all’istanza penale, mentre avrebbe invece potuto separatamente adire anche il giudice civile a tutela dei propri diritti, senza dover attendere l’esito delle investigazioni preliminari nel procedimento penale. È evidente come così argomentando i giudici d’appello italiani abbiano mancato di applicare la legge Pinto e sia inevitabilmente giunta la condanna di Strasburgo.
Immagine di copertina: https://pixabay.com/it/grafica-corte-giustizia-design-882726/
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