Giustizia
41 bis ed ergastolo ostativo. Ma davvero è la ferocia l’unica possibilità?
L’arresto di Matteo Messina Denaro e il caso di Alfredo Cospito hanno concesso una vetrina al nostro governo. E’ finita la pacchia. Meglio spiegare subito che non c’è spazio per concessioni o trattative.
La presidente del consiglio Giorgia Meloni i giorni seguenti all’arresto del boss, ha dichiarato che Matteo Messina Denaro “andrà al carcere duro perché quell’istituto esiste ancora grazie a questo Governo”, confondendo il regime carcerario previsto dall’art. 41bis, su cui il Governo non ha fatto alcun intervento, con l’art. 4bis che regola l’ergastolo ostativo, su cui invece si è parzialmente intervenuti a seguito di una complessa vicenda giurisprudenziale.
Il ministro dell’Interno, Matteo Piantendosi ha chiarito che non riconoscerà nessuna ragione allo sciopero della fame iniziato ad ottobre da Alfredo Cospito, detenuto al 41 bis. Ha detto a chiare lettere che non c’è alcuno spazio per far allentare il regime detentivo più duro per i responsabili di atti terroristici.
C’è una vicenda nella storia d’Italia che racconta una svolta importantissima.
E’ una storia ambientata nei primi anni 80 quando nel carcere di massima sicurezza di Nuoro, Badu e carros, erano detenuti i terroristi delle Brigate Rosse.
Il regime era durissimo e si rifaceva a ciò che stabiliva l’articolo 90 della legge penitenziaria del 1975: isolamento più completo del recluso, impossibilità di ricevere pacchi dall’esterno, vetri divisori nei colloqui con i familiari e gli avvocati e riduzione delle ore d’aria al minimo. Una norma che veniva applicata con la massima discrezionalità del ministero di Grazia e Giustizia, quando ricorrevano “gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza”. Le condizioni di vita imposte erano tanto dure che gli stessi tecnici del ministero chiamavano le sezioni speciali “i braccetti della morte”.
A febbraio 1982 il cappellano del carcere don Salvatore Bussu incontra Mario Moretti il terrorista considerato regista del sequestro-omicidio del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro. Il brigatista chiese al cappellano se sapesse per quanto tempo ancora sarebbero state applicate nei loro confronti le restrizioni previste dall’articolo 90 della legge penitenziaria del 1975. Ma don Bussu non poteva saperlo. Allora Moretti gli disse: “Se così ci vogliono fare morire, preferiamo morire a modo nostro”.
Nel novembre del 1983, al convegno nazionale dei cappellani delle carceri italiane provocarono un terremoto le parole di papa Giovanni Paolo II: “L’uomo conserva integra la sua dignità di persona, che per natura sua è inalienabile, anche in stato di colpevolezza. Le restrizioni delle libertà personali trovano in quella dignità un limite invalicabile”.
L’onda lunga del terremoto provocato dalle parole del Papa arrivò fin dentro il carcere di Badu e carros. Alberto Franceschini e Franco Bonisoli, membri della direzione strategica delle Brigate rosse, chiesero di incontrare don Bussu, che era appena tornato dal convegno nazionale dei cappellani. Franceschini disse parole gravi e sofferte: “In questa stagione la Chiesa è l’unica a fare discorsi di pace”.
Due settimane dopo, don Bussu ricevette dal direttore del carcere le richieste di colloquio di sette brigatisti che spiegarono al cappellano che avevano iniziato lo sciopero della fame per protestare contro le loro condizioni di detenzione. Consegnarono una lettera nella quale spiegavano le ragioni della loro scelta: “… ci sottraggono ogni giorno gocce di vita, distruggendo scientificamente non solo ogni nostro rapporto sociale, ma anche ogni possibilità di ricostruirlo, con l’ambizione infine di distruggerci anche la speranza…l’unica nostra possibilità di vita vera è non accettare questa situazione, non lasciare nelle loro mani i nostri corpi e le nostre anime. Ma riappropriarcene, farli veramente nostri: questo è già per noi vivere, vivere anche in questi luoghi di morte”.
Alla vigilia di Natale cinque detenuti cominciarono lo sciopero totale.
Il cappellano prese una decisione capace di imprimere una svolta alla storia: interrompere il suo servizio di cappellano fino a quando non fossero cambiate le condizioni di vita anche nel braccio speciale del carcere.
Scrisse una lettera al vescovo nella quale spiegava le sue ragioni. Una copia fu consegnata al direttore del carcere, Felice Bocchino, una al maresciallo degli agenti Franco Collu e una all’Ansa. Per rompere il muro di silenzio. “Sperando che i detenuti si ricredano e riprendano a nutrirsi la prego di voler capire il mio atteggiamento che non è di disobbedienza nei suoi riguardi, ma di rispetto alla coscienza di sacerdote che si ribella ad ogni forma di violenza.
Perché se da una parte c’è stato un terrorismo delle Brigate Rosse – e lei sa quanto l’ho sempre condannato nel nostro settimanale che dirigo – dall’altra parte, oggi, per reazione c’è purtroppo un terrorismo di Stato meno appariscente e più scientifico, ma non per questo meno condannabile”.
La lettera di don Bussu esplose sulle pagine di tutti i giornali e nelle televisioni, creando una bufera politica. Marco Pannella si recò subito a Nuoro, parlando più volte col gruppo dei terroristi. Parlamentari del PCI e della Sinistra indipendente presentarono interrogazioni parlamentari. Il ministro di Grazia e giustizia, Mino Martinazzoli, fu costretto a revocare l’applicazione dell’articolo 90 a Badu e carros e ad attenuare le restrizioni per i detenuti “politici”. Fu l’inizio di un lungo cammino di riconciliazione, che portò il Paese fuori dagli “anni di piombo”.
In quella storia collettiva stanno poi tutte le vicende personali.
Come quella di Franco Bonisoli: “Arrestato a 23 anni, vengo condannato all’ergastolo e detenuto nelle carceri di massima sicurezza. A 28, dopo una profonda crisi interiore, ho rotto con l’organizzazione armata e rifiutato la logica della violenza attraverso uno sciopero della fame insieme ad altri miei compagni nel carcere di Nuoro. Un coraggioso e inaspettato intervento del cappellano del carcere in difesa della dignità umana di noi detenuti ha dato una svolta positiva a quel momento critico. Da lì ho potuto iniziare un percorso di ricostruzione della mia vita, ricercando la giustizia sociale attraverso il dialogo e il rifiuto della violenza. In questa nuova vita ho sempre desiderato poter avviare un rapporto di comprensione umana con le persone che tanto hanno sofferto per le nostre azioni”.
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