Giustizia
Meno detenzione preventiva, arresti e reati: per ora lo Svuotacarceri funziona
Calano gli arresti, cala il numero dei detenuti e crescono di nuovo le polemiche. Stiamo parlando delle misure contro il sovraffollamento carcerario. Misure che hanno compiuto due anni: il Parlamento finì di approvare il cosiddetto Decreto svuotacarceri il 19 febbraio 2014. Misure che continuano a generare scontri e discussioni. Da ultimo è stato il Fatto Quotidiano a prendere le norme “svuotacarceri” a pallettoni. «Più furti, scippi e rapine. E meno arresti (per legge)», ha titolato giorni fa il giornale diretto da Marco Travaglio.
E sempre sulle pagine del Fatto sono fioccate critiche anche da parte di alcuni magistrati. L’ex procuratore Marcello Maddalena ha bocciato le misure alternative al carcere previste dalle nuove norme perché «non hanno la stessa efficacia dissuasiva e impeditiva». E già che c’era ha preso le distanze anche da un altro aspetto importante della legge, ossia il minor ricorso alla custodia cautelare: «È stata una scelta del legislatore quella di restringerla senza garantire celerità nei processi», ha rincarato.
Più delinquenza. Magistrati scontenti. Tutto sbagliato e tutto da rifare quindi? Non proprio. In effetti le leggi contro l’affollamento carcerario hanno sicuramente aumentato la possibilità di pene alternative alla prigione, e ridotto il ricorso alla custodia cautelare, ovvero, in italiano spicciolo, la possibilità che una persona accusata di un reato possa finire dietro le sbarre prima di ricevere una condanna definitiva. Ed è pure un fatto che il numero di detenuti, di conseguenza, è calato drasticamente.
Insomma: arrestare, si arresta meno. Del resto questa era ed è la ratio di leggi che sono state approvate in tutta fretta dopo che nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo proprio per le condizioni di vita nelle sue carceri sovraffollate.
Detenuti presenti al 1° gennaio 2014 per cento posti disponibili – Fonte: Council of Europe Annual Penal Statistics via “I fatti dell’anno”, il Mulino editore. Elaborazione GSG
Ma che ci siano più furti, scippi e rapine, beh, quello è tutt’altro che un fatto.
Un po’ di numeri
Le carceri italiane hanno oggi molti meno problemi di sovraffollamento: i detenuti, che a giugno 2013 erano ancora oltre 66mila, sono adesso intorno ai 52mila, poco oltre la capienza regolamentare. Che fine hanno fatto gli altri? Sono, per così dire, corsi a delinquere? Non sembra proprio.
L’ultimo anno per cui abbiamo dati definitivi disponibili è il 2014, ossia proprio l’anno in cui sono stati approvati diversi provvedimenti “svuotacarceri”. Ebbene: rapine e scippi sono nettamente in calo rispetto al 2013, rispettivamente del 10,3% e del 4,5%. Mentre i furti sono effettivamente aumentati, ma solo di poco più di un punto percentuale (1,18%). Chi si aspettava uno tsunami di reati contro il patrimonio dopo che per tanti detenuti si erano aperte le porte delle celle, insomma, è rimasto deluso.
Dati Istat – Elaborazione GSG
Non solo. Ma sono calati ancora anche gli omicidi – sono stati solo 475 nel 2014 contro i 502 nel 2013 – che sono oggi ad uno dei livelli più bassi della storia repubblicana. Ed è calato, nel complesso, il numero totale dei reati denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria (del 2,7%).
E il 2015? E per il 2015 non abbiamo ancora numeri definitivi. Ma secondo i dati non consolidati diffusi alla fine dello scorso anno dal Ministero dell’Interno, gli ultimi dodici mesi avrebbero visto un ulteriore calo della criminalità: ancora meno rapine (-13,8%); ancora meno furti (-9,7%); e ancora meno omicidi (-10,2%). In breve: meno reati in totale (-10,2%). Numeri che il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, nella tradizionale conferenza stampa di fine anno ha presentato con una certa soddisfazione.
Le alternative al carcere
Anche al ministero della Giustizia, Francesco Cascini – magistrato capo del Dipartimento di giustizia minorile e di comunità (e che si occupa anche delle pene alternative al carcere) – ha commentato questi numeri con cauto ottimismo: «Si è invertita – ha detto a Gli Stati Generali – una tendenza importante. Per anni le politiche penali sono state solo contenitive, con pochi benefici sulla recidiva. Ma un sistema funziona meglio se non è orientato solo sul carcere».
Ma queste pene alternative sono davvero efficaci? O ha ragione chi, come l’ex procuratore Maddalena, ne dubita? «Se sono strutturate bene – ha risposto Cascini – funzionano. Per esempio, prendiamo la guida in stato di ebbrezza. È più efficace condannare una persona a due mesi con la pena sospesa oppure a tre mesi di lavori di pubblica utilità? Le pene alternative vengono viste solo come un modo per evitare il carcere. Ma non è così. Gli obblighi possono essere tanti, pesanti e stringenti».
Per altro, come ha ricordato sempre Cascini, i condannati a questo tipo di pene (circa 30mila in totale in Italia) sono ancora pochi se paragonati alla media europea: «In Gran Bretagna ci sono ben 200mila persone sottoposte a queste misure. Misure a volte così impegnative che alcuni preferiscono il carcere». E insomma il nostro Paese si è incamminato anche relativamente tardi su questa strada.
Il boom dei reati predatori è già alle nostre spalle
Allora: tutto bene e tutto perfetto? Neppure. In alcune carceri il problema del sovraffollamento è tutt’altro che risolto: nel penitenziario di Sulmona, secondo gli ultimi dati pubblicati dal Ministero della Giustizia, il numero dei detenuti supera di ben il 50% la capienza regolamentare. E, d’altra parte, i borseggi tra il 2013 e il 2014 sono cresciuti di ben il 7,5 per cento.
La nostra macchina della giustizia continua ad avere problemi. Ma no, gli ultimi due anni – se parliamo di microcriminalità ed è di questo che stiamo parlando – non sono stati, numeri alla mano, così catastrofici. Anzi.
E allora? E allora nemmeno il Fatto nega che gli ultimi dati mostrino un calo dei reati. Ma liquida la cosa in due righe e come poco più di uno sbuffo statistico, sostenendo che questo calo non deve far perdere di vista che i reati predatori aumentano “a manetta” da decenni.
Ma è davvero così? E di nuovo: non proprio.
Tra gli studiosi che si sono occupati di mettere in fila i numeri dei reati commessi dagli italiani in oltre 150 anni di storia unitaria ci sono due sociologi dell’Università di Bologna, Marzio Barbagli e Asher Daniel Colombo. In coppia, i due hanno firmato, nel 2010, uno corposo Rapporto su criminalità e sicurezza in Italia. E proprio Colombo, che ha una cattedra di sociologia generale, a Gli Stati Generali dipinge un quadro ben diverso: «Il vero boom dei reati predatori è avvenuto negli anni Settanta e si è concluso negli anni Novanta».
Fonte: M. Barbagli e A.D.Colombo, Rapporto su criminalità e sicurezza in Italia, 2010
Occorre, però, fare una distinzione, precisa il sociologo: «A partire dagli anni Novanta, i furti non crescono per un periodo, e poi hanno fluttuazioni erratiche, per cui salgono e scendono in numero. Le rapine, invece, hanno continuato a salire fino al 2006 e oggi il trend è calante».
Fonte: M. Barbagli e A.D.Colombo, Rapporto su criminalità e sicurezza in Italia, 2010
Non siamo la pecora nera
Il boom di reati nella seconda metà del secolo scorso, per altro, non è una specificità italiana: «C’è stato un andamento analogo un po’ in tutti i Paesi occidentali – dice il sociologo –. La grande crescita è avvenuta prima negli Stati Uniti, negli anni Cinquanta; poi in Europa negli anni Sessanta e, con ritardo, in Italia negli anni Settanta. E di andamento analogo si può parlare anche per i cali che ci sono stati poi».
Per altro, le cause di questa esplosione di criminalità, secondo il sociologo, in realtà hanno a che vedere, più che altro, con dinamiche profonde della società occidentale, a partire dall’andamento dell’economia. «Gli anni Cinquanta e Sessanta – ricorda Colombo – sono caratterizzati da una grande crescita della ricchezza. Cresce la roba da rubare e quindi furti e rapine. Per capirci: se in tutto un Paese ci sono mille automobili, si possono rubare solo mille automobile. Se abbiamo un’auto a testa, anche i furti di auto si moltiplicheranno». E a partire dal secondo dopoguerra, appunto, le nostre case si sono letteralmente riempite di di cose che fanno gola ai ladri: televisori, stereo, computer. Cose che prima semplicemente non esistevano o erano per pochi.
Altro fattore importante è stato la demografia: «Sono i giovani maschi tra i 14 e i 35 anni a commettere più reati predatori – spiega il sociologo –. Ed è appunto negli anni Settanta e Ottanta che i figli del baby boom italiano entrano in quella classe di età». Ma oggi la popolazione italiana è molto invecchiata, perché i reati predatori non sono crollati? Le ragioni, secondo Colombo, sono diverse, ma le principali sono la perdurante crisi economica da un lato e l’immigrazione dall’altro.
Alla crisi e quindi alla povertà, qualcuno ha reagito delinquendo. Mentre i milioni di immigrati, spesso appunto giovani uomini, che si sono trasferiti nel nostro Paese hanno evitato che l’Italia invecchiasse troppo. Ma hanno anche contribuito al numero di reati. Come? In parte commettendoli. Ma anche, sottolinea Colombo, subendoli: «Gli immigrati – spiega – sono soggetti più vulnerabili e vengono più spesso rapinati e derubati. Perché? Perché per esempio molti non hanno un conto corrente e girando con più contanti sono una preda più appetibile. Oppure perché hanno auto più vecchie, senza antifurto e più facili da rubare. Più in generale, perché quando si trasferiscono qui devono affrontare mille problemi e sono più fragili».
Ma le leggi? «Il numero dei reati dipende poco dalle decisioni dei governi – risponde il sociologo –. Tanto è vero che paesi ultraliberisti come gli Stati Uniti e Paesi europei con un welfare solido hanno avuto problemi analoghi».
Il nodo della carcerazione preventiva
Le leggi, spiega Colombo, hanno invece molta influenza sul numero dei detenuti. In Italia, il numero delle persone in carcere tra il 1970 e il 2010 arriva quasi a triplicare. Perché? In parte perché, come detto, sono aumentati i reati. Ma la causa principale, dice il sociologo bolognese, è che è aumentato anche il ricorso alla carcerazione preventiva. In altre parole: sempre più persone che non erano state ancora condannate talvolta nemmeno in primo grado sono finite in prigione.
Carcerazione preventiva cui l’Italia ha fatto un ricorso estremamente massiccio: «Lo Stato ha cercato così di rispondere a due problemi – dice ancora il sociologo bolognese –. Ha usato questo strumento per contenere le paure delle persone e per trovare una soluzione ai tempi lunghi dei processi. E così siamo arrivati ad avere la quota di detenuti in attesa di giudizio più alta d’Europa».
Poi negli ultimi anni e in particolare dal 2014, con l’applicazione delle prime misure contro l’affollamento carcerario, qualcosa è cambiato. A questa svolta sempre Colombo, assieme a Luigi La Fauci, ha dedicato un breve saggio contenuto nell’edizione 2015 de La Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni, edito da Il Mulino. Il succo dello studio è che, grazie alle norme svuotacarceri, dal 2008 al 2014 è cresciuto il numero dei detenuti con condanne definitive (+30%) ed è crollato quello delle persone in attesa di primo giudizio (-31%).
Un bene o un male? Se questa tendenza venisse confermata, scrivono Colombo e La Fauci, «si tratterebbe di un processo di riduzione di una anomalia di lungo periodo e di convergenza del nostro sistema penale in direzione delle altre democrazie europee consolidate».
Che per una volta tanto pure l’Italia ne abbia azzeccata una?
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Foto di copertina: Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, frontespizio © Yale Law Library
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