Giustizia
13 luglio 1982, presentato il “Rapporto 161+1”
«Per un complesso di motivazioni di natura storica, etnica, economica, politica e geografica – sulle quali si ritiene più opportuno si soffermi l’attenzione del sociologo e del politico, che non degli organi di Polizia – nella provincia di Palermo in particolare, ma, in generale, nelle provincie della Sicilia occidentale, esiste ed opera da tempo la mafia, fenomeno complesso e poliedrico, dalle molteplici implicazioni e connotazioni, che affondano radici profonde nella storia, nella cultura nel modo di essere e di sentire siciliano, ma che in questa sede, intenderemo nella sua superficiale accezione di organizzazione criminale le cui ramificazioni e promanazioni nefande, già tristemente note alla Sicilia e alla nazione, continuano ad incidere, in termini di parassitismo, violenza, sopruso, clientelismo e corruzione, sul tessuto socio economico politico italiano alla stregua di un allucinante ed irrefrenabile processo di metastasi cancerogena».
Inizia così quel rapporto che è passato alla storia come il “Rapporto dei 161+1”, un rapporto realizzato, e firmato, congiuntamente dalla Squadra Mobile di Palermo e dal Nucleo Operativo della Legione di Carabinieri di Palermo. Fu presentato il 13 luglio 1982 al Procuratore della Repubblica di Palermo e, per conoscenza, all’allora Giudice della 6° sezione penale dottor Giovanni Falcone. Il rapporto porta la firma, tra gli altri, del dottor Ninni Cassarà e del dottor Francesco Accordino della Polizia di Stato e dell’allora capitano dei Carabinieri Angiolo Pellegrini.
Si trattò della prima grossa indagine concernente direttamente la fazione di Cosa nostra dei “corleonesi” e il dr. Chinnici, fino alla sua morte, fu l’unico interlocutore della Procura per quel processo. L’istruttoria si chiuse due anni dopo la sua morte, nel 1985. Il rapporto era nato dall’emergenza determinata dalla guerra di mafia in atto ed era frutto dell’intuizione degli investigatori di ricostruire non più il singolo delitto e di individuare il singolo autore, ma di poter elaborare la situazione complessiva di cosa nostra esistente nei primi mesi dell’anno 1982 e a validare il concetto di “organizzazione”.
Rapporto prodromico che aveva posto le basi del primo “Maxi processo” da cui scaturirono in seguito altri rapporti significativi e a cui si aggiunse la collaborazione di Tommaso Buscetta il quale, oltre a confermare la ricostruzione della situazione criminale mafiosa operata dalle forze di Polizia, fornì ulteriori e decisivi elementi che condussero alla scoperta dell’organizzazione dal suo interno e che inchiodarono, tra l’altro, alle proprie responsabilità i cugini Salvo. Fu da quel rapporto che nacquero oltre settecento richieste di rinvio a giudizio e il “Maxi processo”.
Osteggiato subito dopo la sua presentazione, come ricorda il collaborante Brusca che, nell’udienza del giorno 1/3/1999, in risposta alla domanda del P.M. dichiarò: «Non mi ricordo se già erano stati emessi, siccome… sa perché non mi ricordo? Perché io non ero imputato, erano stati emessi, però forse li doveva firmare e poi non li ha firmati più, perché su questo rapporto 162 c’è stata una lotta all’interno della Procura», il 9 novembre 1985 il pool antimafia terminò le indagini preliminari.
L’ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio firmata dal capo dell’ufficio istruzione di Palermo Antonino Caponnetto e scritta da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino, porta il nome di “Abbate Giovanni + 706” ed è lunga circa 8.000 pagine. Gli indagati sono 707 di cui 476 vennero rinviati a giudizio e 231 prosciolti. Alle dichiarazioni di Buscetta prima e di Contorno subito dopo, si aggiunsero quelle di altri pentiti, tra i quali il narcotrafficante cinese Koh Bak Kim e le dichiarazioni postume di Leonardo Vitale che, nel 1973, aveva deciso di dissociarsi da Cosa nostra, ma cui nessuno credette.
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