Enti locali
Vince il Partito Degli Astenuti. Da ripensare è il sistema della rappresentanza.
Mai nella storia in Emilia Romagna l’affluenza era scesa sotto il 68%, mai negli ultimi anni una regione italiana ha fatto registrare un’affluenza così bassa in nessun genere di consultazione elettorale. Mai un Presidente è stato eletto con il 17,7% degli aventi diritto. E che questo sia accaduto in una regione che più di altre ha fatto del civismo, dell’affezione alla partecipazione politica, fa intuire che, come si suol dire, qualcosa sia accaduto.
Che qualcosa stesse accadendo lo si capiva sin da quando aperte le urne delle primarie, dentro si son trovate solo 58.000 schede, un campanello di allarme impossibile da ignorare per un partito che di iscritti ne ha 75.000. S’è detto allora, con qualche buona ragione, che molto andava imputato alle modalità della candidatura, il ritiro di Richetti un minuto prima che la stessa magistratura che aveva fatto saltare il banco di Errani spedisse una raffica di avvisi di garanzia ai due candidati che sapevano che la vittoria alle primarie era una vittoria in pectore delle regionali.
Già a quel tempo in cui circolavano più o meno sottobanco i sondaggi Bonaccini vs. Richetti, il secondo che partiva in svantaggio, sembrava funzionare meglio. Settimana dopo settimana i punti che lo separavano dal suo conterraneo (modenesi entrambi, uno di Sassuolo e l’altro di Campogalliano) si riducevano e a guardare beni i dati s’intuiva il sorpasso. Poi lo stop a Richetti. Intanto le federazioni dell’Emilia Romagna erano in subbuglio. Già provate dallo sforzo delle elezioni europee e in molti casi da elezioni locali con annesse primarie, si sono trovate a fare i conti con la necessità di ricomporre la spaccatura nazionale con il pragmatismo tipico di una terra in cui il partito significa politica, economia e società. Dunque largo ai candidati consiglieri unitari per lacerare il meno possibile quel continuum socio economico che in Emilia Romagna è il PD.
Eppure la sensazione che qualcosa non andasse c’era e la toccavano con mano i candidati ogni giorno per strada a volantinare. Elezioni anticipate, una data anomala, nessun’altra competizione nazionale, stampa e tv assenti e una campagna elettorale a volume bassissimo. Un po’ per il carattere del candidato, un po’ perché il centrodestra ha rinunciato da subito alla partita, un po’ perché lo scandalo dei rimborsi non ha aiutato, i sondaggi hanno dato da subito e fino alla fine numeri allarmanti, affluenza sotto il 50% con un cittadino su tre che non sapeva dell’appuntamento elettorale.
Adesso ci sono da fare i conti e sono brutali. Secondo la contabilità dell’Istituto Cattaneo il primo partito è l’astensionismo, 2 milioni e 150 mila cittadini che hanno scelto di non votare, contro un milione e 200 mila voti validi. Gli astenuti valgono ben 4 volte il voto del PD che ha perso quasi il 56% dei voti rispetto alle Europee (-667.283) e il 37,6% dei voti rispetto alle precedenti regionali (-322.504).
Gli altri non stanno meglio. Per FI questo 23 novembre è stato una Caporetto vera e propria: -66,5% (-171.473 voti) rispetto alle Europee, -80% rispetto alle precedenti regionali ( -417.630). Il M5S perde il 64% dei consensi ricevuti alle Europee (-284.480), mentre la Lega è l’unica che cresce e per merito di Salvini e della linea della neo-destra raddoppia i suoi voti segnando un +117.450 voti, non ancora ai livelli delle regionali del 2010, ma sulla buona strada.
Voti in fuga, dunque, in gran parte verso l’astensione, fatta salva la capacità attrattiva della Lega sull’elettorato in uscita da Forza Italia. Cosa vuol dire? Che al netto delle questioni locali che hanno avuto un peso specifico non marginale, c’è una crisi sempre più acuta della capacità dei partiti di rappresentare cittadini e territorio. Il conflitto con la CGIL innescato da Renzi ha pesato senza dubbio, come di converso ha inciso il fatto che molti elettori di centrosinistra convinti della vittoria certa del PD si sono sentiti liberi di lanciare un segnale. E infatti l’area della sinistra più radicale non è cresciuta e i flussi ci dicono che solo in minima parte i voti in uscita dal Partito Democratico sono andati verso sinistra. Segno che se c’è un problema politico in questo voto, non è sull’asse destra-sinistra che va rintracciato, piuttosto andrebbe cercato nella dinamica alto-basso.
Quello che non regge più è l’idea che il voto possa essere organizzato in modo tradizionale attraverso una logica top down tipica dell’apparato. Non è questione di Renziani o Bersaniani, ma sta diventando sempre più chiaro che i partiti politici come i sindacati non riescono più a governare un elettorato volatile che ieri vota in massa Renzi e che oggi sta a casa a guardare. Su questo varrebbe la pena riflettere.
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