Enti locali
La vita oltre il referendum
Ora che è possibile firmare anche online con il solo SPID (e facciamolo, perché è importante), i numeri dei cittadini che si impegnano per abrogare la riforma sull’Autonomia Differenziata crescono; il passaggio dai banchetti al web ha visto raggiungere e superare nel giro di poche ore il 40% delle 500mila firme necessarie a chiedere l’istituzione del referendum. A rendere particolarmente interessante questa iniziativa referendaria è il fatto che intorno al tema si sia organizzata una parte della società e sia risorto il dibattito, ristabilendo dinamiche di attivazione che non possono che far bene alla democrazia.
In ogni territorio si sono costituiti comitati referendari che vedono coinvolti sindacati, associazioni, partiti, forum, configurazioni locali che si ritrovano in una comune idea di difesa della Costituzione; a partire da accordi quadro dei quartier generali, le configurazioni assunte dai comitati locali variano da territorio a territorio, includendo associazioni locali, reti, persino realtà professionali.
Il tema messo al centro del dibattito è il rapporto tra Regioni e Stato centrale, la definizione di autonomia, il coordinamento del sistema di distribuzione delle risorse, i livelli essenziali di prestazione; insomma si potrebbe dire che si sta sviluppando discorso e pensiero intorno alla struttura stessa dell’impianto statale nella sua articolazione tra dimensioni centrali e locali: un tema di base, che torna a interpellarci su come immaginiamo una democrazia, e come immaginiamo una democrazia come quella italiana in cui la dimensione territoriale è preponderante.
Tuttavia, non è solo l’Autonomia Differenziata a rimettere in moto la conversazione sui fondamentali; concorre il disegno di legge costituzionale sul premierato, che punta a distribuire alcuni poteri, in questo momento in mano al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio, oltre che istituire un canale di elezione diretta e far decadere l’elezione dei senatori a vita. Si può dunque dire che in questi mesi l’intera galassia di realtà civiche e politiche progressiste si è sintonizzata su due riforme di sistema che in comune hanno questo: la centralità della riflessione sulle forme istituzionali del potere.
Il discorso sul potere è per sua natura insidioso. Senza scomodare troppo Foucault, il potere tende a nascondersi, a negarsi, e quando viene nominato in modo esplicito è perché probabilmente si è già rifugiato in una qualche forma organizzata, pronta ad attuarsi. Tuttavia è interessante constatare che, mentre stiamo assistendo alla più grave risacca della partecipazione dei cittadini alla sfera pubblica, si schiuda il bisogno di tornare a parlare di come il potere debba distribuirsi tra livello locale e centrale, di come debba articolarsi tra Governo e Parlamento e di come si costituisca quel difficilissimo rapporto chiamato “rappresentatività”.
I cittadini saranno chiamati prossimamente a esprimersi su due referendum: quello per l’abrogazione dell’Autonomia Differenziata e quello costituzionale per la riforma del premierato. Il referendum è un istituto di democrazia diretta, e condivide con l’altro grande analogo, la legge di iniziativa popolare, il fatto che i cittadini siano chiamati per esprimere accordo o disaccordo con una proposta; il processo di costruzione della proposta, sia referendaria che di legge, rimane appannaggio di un network ristretto di esperti e di decisori. Si invitano quindi i cittadini a partecipare nel senso più blando possibile, che è quello della firma d’appoggio.
La proposta del partito di Giorgia Meloni sul premierato non cade in un vuoto, anzi: è un successo di comunicazione, dato che sembra occuparsi per la prima volta di un problema endemico, l’instabilità politica italiana. Quello che in nessun modo sta emergendo dal dibattito è che tra le cause dell’avvicendarsi praticamente biennale di governi c’è proprio la mancanza di partecipazione al voto. Il fatto che a un’elezione non voti il 40%, quando non addirittura il 50% degli aventi diritto, crea un enorme bacino di potenziale politico che tende a manifestarsi tardivamente nel corso dei governi, con il preciso scopo di creare squilibri nello status quo e portare a far cadere i governi in carica.
La cultura che esprime la proposta sul premierato è stata bene espressa alle elezioni europee da Italo Bocchino, quando ha commentato l’astensione dicendo grossomodo “I cittadini non votano perché si fidano di noi”; una visione che vede la fiducia esprimersi nel ritiro dalla sfera pubblica e nella chiusura in uno spazio privato di delega pressoché totale. Allora forse si deve costruire un discorso forte che faccia da contrappeso a questa possibile deriva.
Affrontare la crisi della partecipazione con strumenti che di fatto delegano ad altri la parte importante, che è quella della definizione del cuore delle proposte, e che considerano i cittadini come numeri per fare massa, temo che vada a riprodurre in modo mimeticamente perfetto quel sistema di concause che poi conclude nel rinunciare alla partecipazione. Quello che invece bisognerebbe avere il coraggio di fare è riscrivere una nuova grammatica del potere, fondata sul ripristino e sulla valorizzazione dei contesti in cui i cittadini riescano a discutere dei problemi in modi che poi risultino effettivi, e non in senso banalmente consultivi.
Affrontare la crisi della partecipazione è necessario, perché l’equilibrio fondato sulla dialettica minoranza che governa e maggioranza che legittima si sta mostrando profondamente incrinato. Oggi, quella che Gramsci definiva la massa dei semplici, ossia i cittadini non organizzati in associazioni o comitati, riescono comunque ad avere voce e a creare senso comune, per certi versi più di quanto non lo faccia chi detiene il controllo dei mezzi di comunicazione. Leggende urbane, teorie del complotto, fake news e le altre forme che assume il discorso dell’anti-potere stanno di fatto facendo più politica di quanto non la stiano facendo battaglie quali il salario minimo o la riduzione della settimana lavorativa.
Il referendum, dunque, non basta. È necessario che le realtà che si stanno attivando nei territori per raccogliere le firme poi costruiscano una piattaforma a partire dalla quale ridisegnare il modo in cui i cittadini vengono coinvolti nel processo politico, insieme lungo la dimensione locale/centrale e lungo la dimensione partecipazione/rappresentanza. Occorre moltiplicare, definire e riconoscere i contesti in cui i cittadini sono chiamati a esprimersi su quali problematiche considerano prioritarie e quali soluzioni immaginano possibili.
Se la proposta di Giorgia Meloni e del suo governo è di accompagnare il ritiro della partecipazione dei cittadini, bisogna che le forze progressiste lavorino a una proposta di segno opposto, affrontando il nocciolo del problema.
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