Enti locali

Il modello lombardo è finito in serie B

11 Aprile 2020

Che la Sanità Lombarda sia un unicum è indubbio. Che lo sia perché è la migliore d’Italia, forse, è un credo che inizia a necessitare di qualche revisione.

Al centro di questa specificità c’è la Legge Regionale 23 del 2015, detta anche “Riforma del Sistema Sanitario Regionale Lombardo”, che ha comportato un riassetto delle Aziende Sanitarie Locali, ora chiamate Agenzie di Tutela della Salute, che rappresentano il braccio operativo della Regione nel territorio. Si tratta di una revisione nata sotto l’egida di Maroni, una mossa politica per cercare di ristabilire un equilibrio tra componente ospedaliera e componente territoriale della Sanità, che era risultata troppo sbilanciata a favore della prima sotto la guida di Formigoni. Tra gli obiettivi dichiarati della Legge 23/2015 c’è quello di favorire il «[…] governo del percorso di presa in carico della persona in tutta la rete dei servizi sanitari, sociosanitari e sociali, anche attraverso la valutazione multidimensionale e personalizzata del bisogno, e secondo il principio di appropriatezza e garanzia della continuità assistenziale». Questo ha comportato la creazione di 8 ATS, a ciascuna delle quali fanno riferimento diverse ASST, Aziende Socio Sanitarie Territoriali, che possono essere descritte come un ospedale con dentro un po’ di territorio.

L’itinerario del cambiamento voluto dalla riforma si rivela assai complesso e intricato, come mostrano le mappe messe a disposizione da Regione Lombardia, e questo ha portato immancabilmente al prevalere del conservatorismo cognitivo sulla visione trasformativa che la riforma voleva veicolare; inoltre, è assolutamente plausibile che, a costituire un’importante zavorra, sia stato il fatto che la LR 23 andava a minare gli equilibri tra Sanità Pubblica e Privata, quest’ultima di natura unicamente ospedaliera, e che quindi a seguito della nuova legge in molti direttori sanitari abbiano puntato i piedi, depotenziando di fatto le ATS, cui spettava parte del recupero della Sanità territoriale.

Da qui, seguono tre istantanee per meglio comprendere come da questo modello possa essere nato il disastro tutto lombardo nella gestione della pandemia.

Distribuzione delle ATS in Lombardia

Prima istantanea

Autunno 2019. A una conferenza su una patologia neurologica cronica in Regione Lombardia si tocca un argomento caldo: si parla di ospedale e territorio, in quanto, come previsto dal modello lombardo (in realtà da ogni modello regionale), le risorse territoriali e quelle ospedaliere devono essere in grado di coordinarsi, creando canali, percorsi entro cui il paziente deve potersi inserire e viaggiare con la stessa comodità di un tapis roulant. Cosa accade, invece, per davvero? Che le risorse territoriali, ossia medici di base, ambulatori, le stesse farmacie, agiscono in modo del tutto autonomo, e i centri specializzati, i reparti, non si parlano mai. Il solo detentore di tutto il proprio capitale sanitario (di relazioni, visite, informazioni) è il paziente. Allora, durante la conferenza, si leva in piedi un relatore, un neurologo, e dice con veemenza: “Non ha senso parlare di ospedale e territorio come di due entità distinte!”. Lontanissimi, siamo lontanissimi.

Seconda istantanea

Inverno 2018. Regione Veneto, Regione Sicilia e Regione Lombardia, tre conferenze diverse su uno stesso tema: l’utilizzo del fondo straordinario messo a disposizione da AIFA per l’acquisto di farmaci innovativi; si parlava di malattie infettive, con questa mossa l’Agenzia Italiana del Farmaco consentiva di fatto un’eliminazione a tappeto del virus, occasione mai vista. Il nodo da sciogliere: come far accedere i pazienti. Regione Veneto: una delibera di giunta stabilisce il programma, si dota di una cabina di regia, mette in rete grandi centri specializzati (hub) e piccoli centri di natura territoriale (spoke), li dota di una piattaforma informatica comune, crea un canale di invio e uno stesso modello per tutte le AUSL. Regione Sicilia, meno governabile a livello centrale, ancora animata da personalismi da Prima Repubblica, non riesce a costruire un’organizzazione del tipo hub & spoke, ma sopperisce a questa mancanza costruendo ottime sinergie a livello locale, provinciale, con l’associazionismo. Regione Lombardia: quasi imbarazzante. L’interlocuzione tra i relatori sembrava una partitella di calcetto, ogni ASST vantava di aver adottato la formula migliore per integrare i centri spoke, protagonismo da yuppie grintosi e capaci, in totale assenza di una regia centrale. In tutti e tre i casi, il grande assente era il medico di base.

Terza istantanea

Primavera 2020. Milanesi a casa con febbre alta, tosse e la paura atavica di morire. Chiamano il medico di base, che consiglia di stare a letto; chiamano la guardia medica, che consiglia il paracetamolo; telefonano al 112, che consiglia di sentire il medico di base o la guardia medica. Nel frattempo i medici ospedalieri, nei centri Covid, di fronte al sovraffollamento di malati e all’impossibilità di accoglierne di nuovi, cercano di fare al meglio, che però significa dal loro punto di vista: abbassare le soglie di età per l’eleggibilità alle terapie intensive, alzare quelle della gravità dei sintomi per l’ingresso in ospedale. Significa che sopra 65 non si va più in terapia intensiva, e che senza sintomi gravi non si viene curati. E questo, si badi bene, è espressione di grande razionalità nella scelta, perché se le risorse sono scarse bisogna contingentarle. Il punto però è un altro: che il criterio di razionalità dell’ospedale è diverso da quello del territorio, e che a livello di ATS si sarebbe dovuta stabilire una linea di condotta capace di armonizzare i due mondi.

Si è governata una crisi sanitaria in totale assenza di una cabina di regia di Salute Pubblica. Si è dato spazio al solo punto di vista ospedaliero, che si è occupato di organizzare l’ingresso in ospedale e l’ingresso in terapia intensiva, e nulla più, come ha denunciato la Federazione degli Ordini dei Medici lombardi. ATS non c’è stata, non ha prodotto modelli, non ha integrato ospedale e territorio, non ha coordinato le forze sparpagliate dei medici di base con quelle concentrate degli ospedali; sono stati sempre loro, gli allenatori delle ASST della serie A lombarda, che hanno in mente più l’ospedale che il territorio, sono stati ancora una volta loro a prendere le decisioni importantissime; che naturalmente hanno prediletto (come è normale che sia) il punto di vista clinico, quello della cura del malato, mentre a un direttore d’ospedale, in fondo, non interessa nulla di prevenzione, che sia primaria o secondaria, di sperimentare modelli organizzativi innovativi, di domiciliarità, di venire incontro ai paucisontomatici, magari con quelle terapie precoci che in Emilia Romagna hanno salvato molte vite in più; per un direttore sanitario il malato esiste da quando arriva in ospedale in poi. Ed è normale che sia così, in fondo, perché un direttore d’ospedale ha un punto di vista parziale. A mancare è stato il resto del sistema.

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