Enti locali
A Roma il Pd “non butta fuori nessuno”, a Sesto Fiorentino espelle 8 consiglieri
«Maremma che traffico ho trovato sulla Roma-Sesto!». Così circa trenta anni fa si scusava del ritardo un commensale di cui non ricordo il nome, che incitò così alla risata noi fiorentini e inaugurò una bella serata di allegria e battute di spirito. Roma-Sesto invece che Roma-Firenze! E proprio quella cena mi torna in mente oggi quando proprio l’asse Roma-Sesto solleva in me una selva di domande a cui non so dare risposta, che riguardano il Partito Democratico. Sesto e Roma, il piccolo e il grande, il micro e il macro, ci offrono casi di crisi di un comune che sono opposti in tutto, meno che nel protagonista, il Pd, e nel fatto che non si è capito molto delle motivazioni di fondo di queste crisi. E hanno in comune la stessa domanda di fondo: è una crisi di tipo personale o politico? Sembra invece che lo stesso problema di capire la coerenza tra la realtà micro e quella macroscopica, che accomuna le scienze e l’economia, sia un rompicapo anche per la scienza della politica, almeno per quanto riguarda il Pd ai tempi di Renzi.
Partiamo dal caso microscopico, meno noto. Sesto è Sesto Fiorentino, grosso comune della piana che scorre tra Firenze e Prato, piana di capannoni industriali, aeroporto, treni e autostrade. Su questa piana Sesto Fiorentino interpolava una retta di comuni renzissimi, tra la Firenze di Nardella e Prato di Biffoni. Una piana di tradizione operaia da sempre, dove oggi domina il renzismo più estremista, quello dei ras che ripetono ossessivamente il “ce ne faremo una ragione”, come ai tempi del fascismo si ripeteva il “me ne frego”. Su questa retta, fino a luglio scorso anche Sesto Fiorentino era governata da un’esponente dell’estremismo renziano, Sara Biagiotti, vice-presidente dell’Anci Toscana. A luglio però la sua esperienza è finita, come è finita quella di Marino, ma con modalità e esiti assolutamente opposti.
Perché si sia sviluppata la crisi al consiglio comunale di Sesto Fiorentino non è chiaro. Dai giornali non traspare molto. Da informazioni private strappate ad amici a cena, o dalla cronaca della seduta del consiglio comunale che ha votato la sfiducia al sindaco, traspare che il sindaco non fosse all’altezza, che non avesse fatto nulla: un po’ gli stessi discorsi che si fanno su Marino. Quello che però colpisce, soprattutto in contrappunto con quanto è successo a Roma, è che la crisi sia culminata in una seduta del consiglio comunale, cui il sindaco non ha neppure presenziato. La mozione di sfiducia è stata proposta da otto membri PD del consiglio comunale, che l’avevano annunciata da mesi e che l’hanno rivendicata a testa alta davanti allo scranno vuoto. Le cronache riportano che qualcuno di questi ha anche pianto leggendo le argomentazioni del proprio gesto. È un pianto che colpisce, perché non è il pianto di un senatore “tacchino” che vede eliminare il Senato: il tacchino senatore piuttosto che piangere becca. Questo è il pianto di gente che non vive di politica: studenti, operai, casalinghe. Questo pianto non riguarda lo stipendio, ma il malessere e la rabbia di non vedere tradotto in azione il programma per il quale si sono chiesti e ottenuti i voti. La politica di professione ha risposto con il processo e l’espulsione di questi “congiurati” contaminati dalla società civile, quella dove si lavora per vivere. La motivazione è lesa maestà del Pd: in virgolettato, la decisione è dovuta alla «gravità del comportamento dei consiglieri» che hanno provocato un «danno all’immagine del Pd«.
Confrontate ora questo comportamento microscopico del PD in un punto nella piana a nord di Firenze, confinata alle cronache locali e ai giornali di provincia, con il comportamento macroscopico del PD della capitale, che ha occupato giornali e media per mesi. Potete apprezzare come il comportamento macropolitico sia diametralmente opposto a quello micro. Prima differenza: a Roma il Pd ha scongiurato la discussione in consiglio comunale forzando le dimissioni dei propri consiglieri, mentre il sindaco aveva convocato la riunione del consiglio in cui avrebbero potuto votargli a viso scoperto la sfiducia. A Sesto Fiorentino i consiglieri comunali hanno presentato la loro sfiducia a faccia scoperta, ma il sindaco non si è neppure presentato ad ascoltarli, e ora annuncia la sua futura candidatura. Seconda differenza: a Sesto Fiorentino quelli che hanno votato la sfiducia sono stati espulsi dalla commissione garanzia del Pd per danno all’immagine del partito. A Roma non pare esserci nessun problema di «danno all’immagine del Pd», perché né i consiglieri, né Marino sono nelle liste di proscrizione di una commissione di garanzia del Pd. Terza differenza: a Roma le dimissioni di Marino sono state programmate e pilotate dal Pd, e i consiglieri hanno fatto da tramite. A Sesto Fiorentino i consiglieri si sono mossi di loro iniziativa, contro il parere del Pd.
Gli interrogativi posti da questo confronto tra micro e macro-politica sono inquietanti, e, quando ammettono risposte, queste sono ancora più inquietanti delle domande. La prima e la terza differenza hanno una spiegazione chiara. Il Pd non sopporta che una crisi di un consiglio comunale si consumi in comune e non tollera che i consiglieri possano sottrarsi a una sorta di mandato imperativo rispetto a qualche segretario metropolitano o regionale del Pd. Il clima del Pd pare essere descritto da un vecchio motto: chi solleva un problema è lui il problema. Resta il mistero del perché a livello macropolitico il Pd abbia una linea buonista, mentre pratichi la santa inquisizione a livello locale.
Molti di noi ricordano di aver sentito tante volte, anche da Renzi stesso, la frase: «Noi non buttiamo fuori nessuno». Perché questo magnanimo principio non vale in provincia, e non solleva neppure l’ombra di un dubbio o di una domanda un malessere che si esprime addirittura nel pianto? Verrà espulso Marino? Perché non sono stati espulsi D’Attorre e Fassina? A noi la risposta pare chiara: questi sono iceberg, almeno nella prospettiva lillipuziana della nostra politica. Dagli iceberg ci si difende cercando di starne alla larga, e aspettando che si allontanino per la loro rotta.
Gli otto “congiurati ”di Sesto Fiorentino invece sono otto cubetti di ghiaccio che puoi tritare per farti una granita rinfrescante nella canicola estiva della piana. E la commissione di garanzia che c’è, ma non per tutti, finisce per coprire di ridicolo il Pd che a livello locale espelle gente vicina alla società civile per “danno all’immagine” e che invece aspetta che Orfini, che per come ha gestito il caso Roma ha danneggiato la reputazione della politica oltre a quella del Pd, si trastulli come Amleto sulla decisione di dimettersi o meno da qualche carica di partito in attesa di assumerne qualche altra. È forse il caso che ritorni anche lui a farsi un giro nella società civile, dove si lavora e ci si prendono le responsabilità, o ci vada per la prima volta se non l’ha mai conosciuta.
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In copertina, l’allora presidente della Provincia di Firenze, Matteo Renzi, all’Incubatore Sesto a Sesto Fiorentino (2009)
Foto di Alessandro Valli, Creative Commons, Flickr
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