Enti locali

Cosa possiamo imparare dalle elezioni sarde?

27 Febbraio 2024

Alle elezioni regionali in Sardegna hanno votato circa 750.000 elettori, non certo un campione rappresentativo. Possiamo comunque apprendere alcuni spunti che dovrebbero preoccupare chi governa e insegnare qualcosa all’opposizione.

 

Il consenso di Meloni

La sconfitta di Paolo Truzzu, candidato imposto dal presidente del consiglio Giorgia Meloni, potrebbe essere un primo segnale dell’incrinarsi del consenso del governo. Così come le regionali del 2015, che Matteo Renzi vinse senza entusiasmo, rappresentarono il primo segnale di declino dell’azione del suo governo.

Come il leader di Italia Viva, Giorgia Meloni sembra essersi infatti lasciata trasportare dall’arroganza, dopo un inizio placido in cui ha goduto di ampio consenso. Dopo un anno passato a seguire la strada già preparata da Mario Draghi, Giorgia Meloni ha provato ad accelerare la concentrazione del potere nelle sue mani.

Ha prima proposto un premierato che guarda caso piace solo a Matteo Renzi, poi ha forzato la mano imponendo il suo candidato di fiducia alle regionali sarde e infine ha negato l’evidenza dei soprusi della polizia sugli studenti di Pisa e Firenze. Una linea arrogante che non poteva pagare.

Soprattutto, se il proprio partito semplicemente non riesce a supportarla. Il presidente del consiglio avrebbe bisogno di una classe dirigente preparata, ma è chiaro che qualcosa non va. Le continue gaffe del cognato, messo a capo del ministero un tempo noto con il nome di agricoltura, l’imbarazzante sparo di Capodanno e il partito messo nelle mani della sorella e di un responsabile dell’organizzazione, Giovanni Donzelli, famoso per affermazioni prive di ogni logica, sono solo alcuni dei tanti segnali.

A conferma di questi segnali, il sindaco di Cagliari si è fermato al 34% nella città che amministra. Un dato disastroso, segno di un’incapacità pressoché totale di amministrare la cosa pubblica. Ancor più interessante è l’ampio dato del voto disgiunto a sfavore di Truzzu, solo in parte attribuibile all’insoddisfazione leghista per la mancata ricandidatura del presidente uscente.

 

Il rapporto col centrodestra

Probabilmente, il presidente del consiglio dovrebbe uscire dal bunker di familiari e fedelissimi di cui si è circondata e aprire a chi conosce la politica. Magari iniziando dal proprio mentore Fabio Rampelli, escluso da ogni carica e competizione, forse per volontà di rivalsa.

Nel centrodestra, se Atene piange, Sparta non ride. Matteo Salvini sta riportando la Lega dove l’aveva presa, intorno al 6%. Frutto di scelte assurde e sconclusionate, non ultima quella del ponte sullo stretto. Aspettiamo l’ufficializzazione della candidatura alle elezioni europee del generale Roberto Vannacci per terminare la tragicommedia.

Se Salvini avesse fatto un buon risultato, avrebbe potuto punzecchiare la Meloni colpevole di aver scelto il candidato perdente. Dall’alto del 3,8% in Sardegna, il leader leghista dovrà preoccuparsi di blindare l’ennesima candidatura di Luca Zaia in Veneto. Un Doge disoccupato sarebbe l’incubo di Salvini, perché potrebbe prendersi il partito in cinque minuti facendo asse con la base storica della Lega, che fu Nord.

Regge, incredibilmente, Forza Italia. Segno che c’è ancora una percentuale di elettori che continua a votare Silvio Berlusconi in modo incondizionato. Anche perché è meglio votare i partiti moderati, se quelli più a destra promettono fantomatiche rivoluzioni per poi schiacciarsi sulle posizioni di Draghi.

C’è infatti una parte di elettorato che credeva davvero nei blocchi navali, nelle parole forti contro l’Unione Europea, contro la NATO e la guerra in Ucraina. Oggi, questi orfani delusi si mantengono comunque distanti dai progetti folkloristici di Gianni Alemanno e Marco Rizzo.

 

La sinistra

L’incapacità della destra di fare quanto promesso e di avere una classe dirigente affidabile, aprirebbe la strada alla sinistra. Ma non a una sinistra all’acqua di rose che prosegue la strada di Draghi e Meloni senza fomentare il clima d’odio e in maniera meno ipocrita. La sinistra deve avere il coraggio di esporsi e diventare un po’ populista nel discutere i temi sociali, senza mai trascurare quelli civili.

In parte, è quello che ha fatto in Sardegna. PD e M5S hanno dato l’impressione di essersi finalmente accordati su un progetto, e non su un’ammucchiata elettorale. Elly Schlein sembra essere riuscita a mettere in pratica l’idea per cui è stata eletta segretario del PD, con coraggio e visione. In questo, è stata aiutata da Alessandra Todde, personalità politica ben nota, non calata dall’alto e il cui giudizio positivo era condiviso da entrambi i partiti.

La vittoria risicata sembra frutto della grossa divisione derivata dalla candidatura di Renato Soru, ottimo amministratore e tra i padri fondatori del PD. Ma l’appeal del terzo polo è basso, così Soru e i suoi alleati sono rimasti fuori dal parlamento regionale. Soprattutto a causa di una legge elettorale folle, per cui il candidato deve raggiungere il 10% dei voti per ottenere almeno un seggio.

Grazie a questa nuova disfatta, Carlo Calenda, come gran parte del mondo liberal, ha compreso che la costruzione di alleanze più ampie possibile è l’unico modo per contendere la vittoria alla destra. Il centrosinistra dovrà quindi costruire ponti e cantieri per appianare le divergenze, senza lezioni e senza ramanzine, né da parte del PD né da parte di Giuseppe Conte e il suo M5S.

Di questo cantiere probabilmente non farà parte l’Italia Viva di Matteo Renzi, che potrebbe virare a destra. Ciò potrebbe causare problemi e grattacapi devastanti, a Meloni.

 

Lo spoglio

L’ultima parola deve essere spesa sulla lentezza con cui sono stati comunicati i risultati. Uno spoglio estremamente lento e complicato può durare al massimo tre ore. Non c’è motivazione alcuna per lo spettacolo raccapricciante a cui abbiamo assistito, per cui dopo dodici ore i dati erano ancora lontani dall’essere chiari. Ne vale della salute della democrazia.

 

Immagine dalla pagina Facebook di Alessandra Todde

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