Enti locali
Caro Centrosinistra, il tempo stringe
Dopo ogni elezione, il tentativo di molti politologi e di tutti i notisti politici è un po’ quello dei fisici teorici: si cerca la spiegazione più elegante e sintetica, si cercano la simmetria, l’ordine, l’idea unificante che tenga assieme tutti i pezzi. La cosa riusciva abbastanza facile sia al tempo dei grandi partiti di massa e delle grandi narrazioni politiche, durante la Prima Repubblica, sia durante la Seconda, ai tempi del nostro bipolarismo imperfetto. Oggi non è più così semplice, a mio avviso, nonostante le letture prevalenti diffuse in queste ore.
Un po’ tutto il ceto dirigente di centrosinistra sembra concordare su un punto: «La nostra gente» è stufa di battibecchi, litigi e scissioni. Naturalmente all’interno del PD si accusa la guerra di logoramento condotta dagli antirenziani, mentre questi ultimi danno la colpa agli strappi di Renzi. Onestamente, la Teoria dell’Eccessiva Litigiosità a Sinistra, che esaspera l’elettore e lo fa restare a casa, mi convince solo in parte. La storia della Sinistra è tutta uguale, dalla Prima Internazionale ad oggi. Le rotture spostano voti di qua e di là, ma in questo caso stiamo parlando non di voti spostati, ma di voti scomparsi tra astensione, m5s e centrodestra a trazione leghista.
Le divisioni fanno perdere la Sinistra, si ripete. Verissimo. I fatti però ci dicono che l’unità è una condizione necessaria, ma niente affatto sufficiente. A Padova, Sergio Giordani, amico dell’ex sindaco bersaniano Zanonato e sostenuto al ballottaggio dalla coalizione civica alla sinistra del PD, batte Bitonci forse solo per la debolezza di quest’ultimo. A Genova – la sconfitta che pesa di più, nonostante gli androidi renziani la mettano sullo stesso piano della vittoria a Molfetta – l’unità non è bastata, né è bastato un candidato di sinistra-sinistra come Crivello, che forse ha pagato il fatto di essere stato assessore di Doria. A Sesto S. Giovanni, un tempo – ormai lontanissimo – Stalingrado d’Italia, Monica Chittò aveva il sostegno più ampio possibile, dalle civiche a Rifondazione, ma non ce l’ha fatta.
Certamente esistono questioni locali che andrebbero sviscerate, ma noi, come premesso, vogliamo la teoria unificante, ne abbiamo un gran bisogno per muoverci nel caos di quest’epoca orribile. Una traccia da seguire, ahinoi, è senza dubbio quella della paranoia legata all’emergenza migranti e al terrorismo islamista. Lo sanno gli ex ras della Ditta Bersaniana: bloccati in una sorta di emiparesi, metà volto sorridente per la tranvata subita dall’arcinemico Renzi, metà dolente per la crisi della Sinistra nel suo insieme, insistono, come abbiamo detto, sui danni della svolta destrorsa del PD.
Certamente, non ci stancheremo mai di scriverlo, le persone preferiscono sempre gli originali alle brutte copie. Vale per il vestiario e i gadget tecnologici, vale anche per il mercato delle idee. Imitare la destra, ad esempio sul tema dell’immigrazione, serve soltanto a confermare le paranoie dell’elettore impaurito. E si comprende perfettamente lo sconcerto dei bersaniani di fronte ad ampie porzioni del «nostro popolo» che – in periferia come in centro – dimostrano preoccupanti tendenze xenofobe. Il problema è che a questa constatazione non fa mai seguito un’analisi puntuale slegata dalla propaganda.
La crisi della Sinistra è iniziata alcuni decenni fa, quando all’idea di emancipazione – anche culturale – della classe operaia si sono sostituiti l’assistenzialismo e la gestione dei clientes. Ovvio che un legame di questo tipo non possa resistere alla crisi del debito sovrano. Ma se il vecchio tesserato nato politicamente nel PCI comincia a desiderare “pulizia” nel suo quartiere e a preferire Salvini a Renzi, nonostante gli orridi decreti Minniti e le tante uscite censurabili su migranti e sicurezza, la colpa è di Renzi? Purtroppo, la prima delle Grandi Tradizioni di Sinistra abbandonate dagli ex figiciotti sembra essere quella dell’autocritica.
Naturalmente l’arroganza non difetta nemmeno al Segretario. Poco interessato alla campagna delle amministrative, terrorizzato dal calo dei consensi, Renzi vive la frustrazione più grande della sua carriera politica: essersi preso definitivamente il partito, privo ormai di opposizione interna, soltanto per scoprire che quel partito è un limite alle sue ambizioni. Lo immaginiamo guardare a Macron mangiandosi le mani. «Che bischero! Se solo avessi fatto un partito mio!». Non sarebbe cambiato granché, forse, comunque ora è troppo tardi.
Il capitale del carisma è stato già speso, resta da capire se nei prossimi mesi la via seguita sarà quella dell’arroccamento, che, nella migliore delle ipotesi porterà nel 2018 a un fragile governo di larghe intese, o il passo indietro di un Renzi che resta segretario rinunciando alle prossime primarie per il leader di coalizione. Nel frattempo, la Destra torna a serrare i propri ranghi e a recuperare parte del suo elettorato divenuto grillino. Il m5s, raggiunto il limite fisiologico dei consensi, è infatti all’inizio della sua parabola discendente e si avvicina la resa dei conti tra chi vuole governare e chi si accontenta del teatrino e del lauto stipendio di parlamentare.
Quando quel terzo polo collasserà, la Sinistra – tutta – potrà decidere se far governare la Destra per un altro decennio o no. Ma forse quella decisione è già stata presa.
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