Enti locali
5 is the new 4
Il referendum del 4 dicembre è senza dubbio una sfida, un momento in cui il Paese dovrà decidere che strada prendere, se sbilanciarsi e avviare un processo di riforma a partire della sua architettura costituzionale, di cui la modifica della Costituzione è solo il primo passo, a cui dovranno seguire nuovi regolamenti parlamentari, leggi ordinarie, decreti attuativi. In alternativa, potrà scegliere di mantenere l’attuale struttura, rimandando a un altro momento (e presumibilmente ad altre persone con idee differenti) le modifiche che da anni, circa trenta, sono percepite come necessarie ed urgenti per avere uno Stato più moderno ed efficiente.
Nel dibattito attorno a tale scelta, ormai più o meno tutti “quelli che contano” hanno preso posizione, tra gli ultimi, The Economist, settimanale anglosassone di informazione e critica economica.
L’Economist apre il suo pezzo con un elenco dei mali che affliggono il nostro Paese: il PIL fermo ai livelli degli anni ’90, il mercato del lavoro poco efficiente, le banche cariche di NPL (non performing loans, cioè titoli scadenti), l’alto debito pubblico, pari al 133% del PIL e, da ultimo, il fatto di essere “too big to rescue”, troppo grande da salvare. Insomma, pare che, data la dimensione dell’economia italiana rispetto alle economie europee che potrebbero venire in nostro soccorso, rischiamo di trascinarci dietro anche eventuali soccorritori.
Ergo, dobbiamo cavarcela da soli.
Nonostante tutto ciò, l’Economist sostiene che votare no sia la scelta migliore, nonostante affermi che sia un no a malincuore (a regretful no). Le motivazioni? Principalmente due, autoritarismo e corruzione.
Il giornale britannico sostiene che l’accentramento (per via delle competenze che passano dalle Regioni allo Stato) e la maggiore stabilità del Governo, che la proposta di riforma vuole perseguire, non siano adatte a un Paese che ha avuto come protagonisti della vita politica personaggi come Mussolini e Berlusconi.
D’altra parte, l’Economist vede il nuovo Senato, espressione delle autonomie locali, il luogo dove la corruzione, la quale il giornale sostiene essere più diffusa a livello regionale e locale che non a livello statale, fiorirà rigogliosa, e dove i vari gruppi di interesse troveranno orecchie disponibili ad ascoltare.
Inoltre, afferma che più che un cambiamento all’architettura costituzionale, due riforme servirebbero all’Italia: dell’istruzione e della giustizia.
Da cittadino, da Italiano e da Europeo, da giovane (25 anni) impegnato nelle istituzioni (precisamente, il Consiglio Comunale di Laveno Mombello), da cattolico ambrosiano che fa quel che può, da bocconiano, da lombardo, da varesotto, non ho saputo trattenermi. Ed ecco quello che mi sento di dire.
I mali italiani esistono, non è possibile negarlo, ed è altrettanto vero che dovremo risolverli da soli: la dimensione del Paese può rendere difficoltosi eventuali salvataggi, ma d’altra parte garantisce sufficienti energie per uscirne, e uscirne bene. Il rischio dell’autoritarismo e la presenza della corruzione possono avere a che fare anche con la Costituzione, ma dipendono molto di più dalle persone che decidono di dedicarsi alla cosa pubblica.
La campagna referendaria ha riempito teatri, sale e salotti (io stesso sono stato testimone, da relatore e da organizzatore, di due sale affollate di oltre cento persone l’una, molte delle quali giovani). La campagna referendaria ha provocato passioni forti e discussioni accese. Ha spinto molti ad approfondire la propria conoscenza della Costituzione, a porsi la domanda, fondamentale, “che Paese vogliamo per il futuro?”. Ora, siamo tutti più consapevoli dei problemi e delle possibili soluzioni. The Economist ci ha reso più consci dei mali e dei rischi che, se iniziassimo a camminare, potremmo dovere affrontare. Ma non iniziare a camminare per paura di inciampare nell’autoritarismo o nella corruzione è inaccettabile: significherebbe ammettere le proprie incapacità e inadeguatezze. Significherebbe lasciarsi vincere dalla paura.
La vittoria del sì permetterà quello sbilanciamento che è essenziale a fare un passo, il primo passo di un cammino che ne dovrà comprendere molti altri, tra cui certamente la riforma dell’istruzione e quella della giustizia. La vittoria del no, però, non dovrà essere una scusa per restare fermi: si dovrà individuare un primo passo alternativo, ma si dovrà iniziare.
L’interesse e le passioni suscitate dalla campagna referendaria anche in coloro che si sentono (si sentivano!) più lontani dalla politica non devono essere disperse.
Certamente prima si fa il primo passo, meglio è. Anche per questo è importante votare sì: per avviare subito un processo di riforma. D’altra parte, ritardare di un giorno potrebbe non essere grave. Potrebbe non essere grave se, con una vittoria del no, dal giorno successivo, il 5 dicembre, si individuerà il “nuovo primo passo” da fare per non permanere in quella staticità che non serve a nessuno.
In uno slogan, se dovesse vincere il no, bisogna far sì che “5 is the new 4”. Se non si parte il 4 dicembre, che si parta il 5.
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