Enti locali
Tre su cinque non vanno a votare: Matteo, fermati e ascolta il paese
Trattate come semplice “dato regionale” il voto emiliano-romagnolo e calabrese davvero non si può. Il Pd con ogni probabilità vince le elezioni regionali di Emilia Romagna e Calabria, ma a chi eccepirà che ci sono dei segnali di crisi seria sarà bene non rispondere con la solita canzone del gufo rosicone. Le elezioni appena concluse, infatti, sono nella storia repubblicana quelle che registrano la più bassa affluenza. Sappiamo tutto, naturalmente: si votava solo in due regioni, per quanto significative, quali l’Emilia Romagna e la Calabria, che insieme rappresentano all’incirca il 10% del corpo elettorale italiano, e quindi non si può enfatizzare il risultato. Le campagne elettorali non sono state esaltanti, e chi ha visto da vicino in particolare quella emiliano-romagnola testimonia che l’aria era ferma, l’indifferenza elevata, la mobilitazione tendente a zero.
E tuttavia, il risultato non può essere trascurato se nel 2010, alle ultime regionali svoltesi nelle due regioni, nella regione di Bologna andava a votare il 68% circa degli aventi diritto, mentre in Calabria si superava il 59%. Che vuol dire che, pur vincendo, il Partito Democratico perderà in Emilia Romagna molte centinaia di migliaia di voti, e in una situazione di così forte polarizzazione dell’intera scena politica attorno al suo protagonista incontrastato, Matteo Renzi, non è possibile non guardare con un occhio speciale la relazione tra questi risultati e la sua azione politica.
Prendendo a riferimento poi un’occasione non omogenea, ma decisamente più recente, le elezioni europee dello scorso maggio, quelle del trionfo renziano, la distanza continua a sembrare siderale: ma se in Calabria il boom renziano era arrivato in un contesto di bassa affluenza, attorno al 45%, la distanza che fa più impressione la segna il dato dell’affluenza emiliano-romagnola, che appena a maggio, e per le europee, era del 70%.
Il dato emiliano-romagnolo, infatti, porta con sé un simbolismo e un valore che per il Partito Democratico discende dalla storia e parla del presente e del futuro. La storia, la conosciamo, è quella di una storica cassaforte che il Pd, passando per svolte, cambi di orizzonti e di nome, ha sempre garantito una tenuta, una mobilitazione, una capacità di reggere le tensioni e di garantire partecipazione. La regione di Bersani, certo, ma anche quella di Graziano Del Rio e Matteo Ricchetti, per parlare di uomini del Pd che fin dalla prima ora sono stati al fianco di Matteo Renzi, quando era estrema minoranza nel partito. È questa, con oggi, una realtà di cui si può parlare al passato: perché in Emilia Romagna, al di là della ragionevole vittoria attesa, il dato dice della fine di un’epoca, l’epoca che vedeva nella regione di Bologna la capitale della partecipazione politica ben piantata a sinistra.
Il Pd, dicevamo, perde tanti voti rispetto ai recenti trionfi renziani ma anche rispetto alla solida a un po’ grigia burocrazia dell’era bersaniana. Con quel che restava dell’apparato del vecchio Pd, peraltro, proprio in Emilia-Romagna, Renzi e il suo candidato Bonaccini avevano stretto un’alleanza tattica per essere sicuri di non correre rischi particolari. Sempre per rimanere dentro al perimetro del bacino tradizionale dei voti del centrosinistra, nella regione che fu “rossa” Renzi sconta ragionevolmente lo scontro permanente alla propria sinistra, in particolare con la Cgil e la Fiom, e anche qualche tensione con il mondo cooperativo, nonostante abbia Giuliano Poletti al governo.
Tuttavia, guardando la vicenda da più lontano, il segnale che arriva dalle urne è un segnale meno interno ai giochi di corrente e potere, meno politicista. È un grido che arriva da un paese, da una società, che non si sentono probabilmente più rappresentati dalla politica istituzionale e che non sono disponibili a una mobilitazione carismatica permanente, senza vedere mai un’azione concreta, o almeno una prospettiva di azione concreta. È un rumore sordo, in parte, come lo è l’indifferenza di chi (quasi due emiliani-romagnoli su tre: cifra che fa impressione) decide di non andare a votare, perché semplicemente ritiene che chiunque vinca per lui va male uguale.
Oppure è lo sferragliare stridente della protesta che continua a montare, ed è rappresentata dalla Lega di Matteo Salvini, dalla sua visita provocatoria nei campi Rom, dai suoi candidati muscolari come Alan Fabbri. Non vincono, certo, e ci mancava anche, ma raggiungono vette di consenso inimmaginabili appena poco tempo fa, spostando decisamente a destra il baricentro delle proposte e delle retoriche imbracciate. Contro l’euro, contro la globalizzazione, contro l’Europa. Sommando i loro voti a quelli – in calo – dei grillini arrivano a un terzo di quelli che sono andati a votare, e certo possono rivendicare qualche somiglianza ai tanti che invece, per “protesta”, ha deciso che loro non votavano proprio.
Gli analisti da domani si eserciteranno sui nuovi equilibri che escono logorati, indeboliti, mutati da questo voto. Che ne resta del Patto del Nazareno, ora che Forza Italia è una larva mangiata dal cannibale Salvini? Come e quando si tornerà a votare? A noi, modestamente, interessa qualcosa di più importante: che ne è di un paese che quando si esprime, per azioni o per omissioni, tende a manifestare in modo maggioritario una sfiducia antipolitica e anti-istituzionale profonda. Tende, in un sistema che dissolve i partiti e salta a piedi pari corpi intermedi che non stanno più in piedi, a stimolare solo la pancia, la pancia vuota di questi anni di crisi infinita.
Il nodo da affrontare, con pazienza, tenacia, sapienza politica, è tutto lì. In caso di mancanza, il grido si alzerà probabilmente ancora più alto in futuro, e le conseguenze più gravi non saranno i risultati elettorali ma la tenuta di una società che, a chi la frequenta, inizia a mettere un po’ di paura. E di questo, non ce ne voglia nessuno, non possiamo proprio farci una ragione.
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